19 Aprile 2024
viaggio nello Yemen
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Sana è una città di cioccolato, con la glassa bianca che disegna i contorni di porte e finestre; Shaharah è un nido di umani quasi irraggiungibile; Marib è misteriosa e inquietante. Lo Yemen è un paese incantato dove il tempo è un’unità di misura volatile e ci si sente trasportati nel Medioevo. Questo è quanto scrissi al ritorno dal mio viaggio nello Yemen, ma oggi mi trovo per la terza volta, dopo Libia e Siria, a dover pensare che quello che mi è rimasto negli occhi e nel cuore probabilmente non esiste più, spazzato via da una guerra che non ha neanche gli “onori” delle cronache ma che miete centinaia di morti
23 dicembre 2005 – 7 gennaio 2006

Decido di fare questo viaggio all’ultimo momento. Di andare da sola non se ne parla: dovrei comunque prendere una guida con auto sul posto e sarebbe troppo costoso, la scelta cade quindi su Avventure nel mondo ben conoscendo i pro e i contro. Tra i contro: le corse, l’alto rischio di non potermi assaporare i posti, l’eventualità che i compagni di viaggio non siano una piacevole compagnia; tra i pro il fatto che non avrò grandi sbattimenti, che il costo è accessibile e che, alla fine, riuscirò a vedere tutto quello che desidero.

Il 24 dicembre, incontro a Fiumicino con il gruppo. È andata bene, la prima impressione è positiva. Arriviamo a Sana alle 20, ma l’attesa per i controlli è piuttosto lunga e non riusciamo a essere in albergo prima di mezzanotte. Vado a dormire.

L’albergo è dignitoso anche se è fuori dalla città vecchia.

VERSO SHAHARAH, IL “NIDO DELLE AQUILE”

Primo cambiamento di programma. Dovremmo andare a Sadaa (all’estremo nord) ma ci sono problemi di sicurezza, ci riproveremo domani anche se le probabilità di riuscirci sono scarse.
Quindi ci muoviamo verso Amran. La partenza è una delle solite, in perfetto stile arabo: diecimila yalla, tutti sulle jeep, tutti giù, i bagagli dentro, poi di nuovo fuori e, nonostante ci si sia alzati alle 7, non si parte prima delle 9. La direzione è Shaharah, il “nido delle aquile”, un paesino abbarbicato sulle pendici di due montagne le cui due parti sono collegate da un ponticello medievale sospeso sul precipizio. Appena usciti dalla capitale ci viene affidata la scorta armata che ci seguirà fino al villaggio (anche se a volte è quasi invisibile). Arriviamo ad Amran, antico centro commerciale, circondata da alti bastioni in adobe (impasto di argilla, sabbia e paglia essiccata al sole utilizzato per costruire mattoni), in parte ancora visibili: qualche chiacchiera con una scolaresca femminile all’uscita da un liceo; domani hanno l’esame di inglese e ne approfittano per fare un po’ di esercizio. La strada per Amran è breve e in ottime condizioni ma ci fermiamo più e più volte per inspiegabili soste, per cui arriviamo ad Amran verso le 11. Case di fango, alcune decisamente particolari; nugoli di bambini che ci corrono incontro per farsi fotografare e scoppiare a ridere nel vedersi nei display. Pranzo di Natale in un baracchino.

Alle 16 si riparte e inizia un interminabile viaggio su strade le cui condizioni peggiorano a ogni chilometro; attraversiamo varie valli con acacie, palme e sterminate piantagioni di qat (pianta originaria delle regioni orientali dell’Africa, probabilmente dell’Etiopia, ma assai diffuso nella penisola Arabica e le foglie contengono un alcaloide che provoca forme di dipendenza; la coltivazione di qat ha quasi totalmente sostituito le piantagioni di caffè per le quali un tempo lo Yemen portando, come conseguenza un costante inebetimento, soprattutto nelle ore pomeridiane, della popolazione maschile); dappertutto sacchettini di plastica azzurra che rotolano nel vento. Arrivati ad Al Gabai dobbiamo cambiare mezzo di trasporto lasciando le jeep per dei pick up; neanche i nostri esperti autisti sono in grado di aggredire gli ultimi chilometri di salita (da 1400 a 2600 metri in pochi terrificanti tornanti) verso Shaharah. So che l’indomani scenderemo a piedi dall’altro versante, in ogni caso personalmente non scenderei mai con un mezzo da questa stessa strada. La salita si svolge all’imbrunire e alle 18.30 prendiamo possesso nelle nostre stanze in un funduq (uno dei 2 del villaggio), dopo cena breve passeggiata nella notte per godere della stellata e alle 9 siamo già in branda.


 

SHAHARAH, UN PRESEPE NELLA NEBBIA

Passo la notte quasi in bianco e, in ogni caso, alle 5.30 mi voglio alzare per vedere l’alba. Shaharah sembra proprio un piccolo presepe, la valle è immersa in una nebbia densa, da cui spuntano cime di varie forme. Nell’alba lunare, il primo incontro ravvicinato con le donne yemenite: neri e inavvicinabili fantasmi.

Dopo una sostanziosa colazione iniziamo la discesa. Il ponte di pietra è nel punto più stretto della gola, la vista da entrambi i lati è spettacolare. La discesa è impegnativa, ma splendida.

Ogni tanto l’incontro con una donna o un bambino che compaiono nel nulla mentre le aquile roteano sopra le nostre teste.

Finalmente arriviamo alle jeep e dopo altre 5 ore di strada tra precipizi, valli, tornanti e burroni arriviamo a Thula. Alloggiamo in un bel funduq dove io e Lucia ci fermiamo per rilassarci e farci una doccia mentre gli altri vanno all’hammam. Un breve giro nella notte prima della cena. Credo che stanotte crollerò come un sasso.

Alle 6.30 esco da sola per una passeggiata solitaria. Pia illusione. Si avvicina subito una “guida” che non ha alcuna intenzione di mollare il colpo, prendo la cosa con filosofia, inutile impuntarsi; tutto sommato è meglio così perché mi fa vedere degli scorci che forse non avrei notato e poi in un viaggio così sono talmente rare le occasioni per comunicare con qualcuno del luogo che due chiacchiere mi fanno solo piacere. Incontriamo solo donne che vanno alla fonte a prendere l’acqua. L’ora è proprio quella giusta: le case, con la luce radente dell’alba, assumono un bel colore ocra.

Contrariamente ad Amran e a Sana, le case di Thula sono di pietra e non di fango per cui il colore si confonde con la montagna che incombe sul paese. Diverse abitazioni sono state costruite dagli ebrei che, prima del 1948, abitavano numerosi nello Yemen anche se non potevano risiedere dentro le mura.

Verso le 8 partenza per Shibam (quella del Nord). Breve sosta nel piccolo villaggio di Hababah dove una corona di case si affaccia sulla vasca d’acqua. Lasciamo poi rapidamente Shibam per raggiungere Kawakaban, bel villaggio-fortezza a 3000 m, un tempo celebre per la sua scuola di musica e oggi quasi completamente abbandonato e in semi rovina; fervono però lavori di restauro.

Di nuovo in marcia verso Al Tawhil. La strada è molto bella, si susseguono scenari di montagne dove svettano alcune cime che superano i 3000 m. Ma come sono riusciti a costruire queste case? Come hanno fatto a portare il materiale su questi roccioni apparentemente inaccessibili?

Dopo pranzo ci muoviamo verso Manaka. Ancora una strada che stupisce: dopo una ripida discesa, entriamo in una placida e ampia valle per poi risalire e ammirare, sotto di noi, wadi lussureggianti di vegetazione con spuntoni di roccia che emergono dal nulla e sui quali, sempre più incredibili, altri nidi d’uomo.

Si arriva al bivio per Manaka in piena notte e veniamo subito aggrediti da un nebbione fitto, viaggiamo nel nulla e non osiamo pensare alla strada. Noi non la vediamo, ma sarà come quelle percorse fino ad ora? Meglio non chiederselo.

Troviamo posto in un hotel che ci offre due stanzoni: uno per le femmine e uno per i maschi.

NELLA ROCCAFORTE DI AL HAJJARA

Al mattino, con uno splendido cielo turchese, il panorama ci si svela in un infinito di catene di montagne che si susseguono a varie altezze, emergendo da un letto di nubi che ammorbidisce il paesaggio rendendolo surreale. 7.45 partenza per il santuario di Al Huttaib da dove riscendiamo a piedi verso Manaka con una bella passeggiata di due ore. Si sale sulle jeep diretti ad Al Hajjara, un villaggio che lascia a bocca aperta da tanto è bello: una specie di roccaforte con case a torre alte anche otto piani. Anche qui non si può però non notare la totale incuria in cui tutto è lasciato, la sporcizia è davvero al di là dell’immaginabile. È l’unica cosa negativa che per ora posso dire di questo paese.

A dire la verità un’altra cosa negativa c’è: la nostra guida. È completamente inaffidabile. È somalo e teoricamente dovrebbe parlare italiano, ma il suo idioma è assolutamente incomprensibile; ci rassegniamo subito alla sua inutilità come guida “turistica” ma confidiamo nel suo intervento per i confronti con i vari militari o pseudo tali che incontriamo. Ma ci rendiamo presto conto che anche il suo arabo è piuttosto approssimativo e, in varie occasioni, dobbiamo intervenire direttamente perché il “confronto” con le “forze dell’ordine” non si trasformi in un scontro. Decidiamo, quando rientreremo a Sana, di chiedere un cambio. In ogni caso il pomeriggio diventa completamente inoffensivo perché si inebetisce con il qat sul sedile posteriore di una delle jeep e non si muove più. Ci rimorde un po’ la coscienza perché siamo consapevoli che questa è la sua fonte di reddito, ma nei prossimi giorni dobbiamo andare in una delle zone pericolose dello Yemen e non vorremmo trovarci nei guai.

Torniamo a Manaka e ci dirigiamo verso Hodeidah. Il viaggio sulla costa non era previsto, ma visto che non si può andare a Sadaa e che nei viaggi con Avventure l’imperativo che vige è “evitare di fare le cose con calma”, eccoci in pista. Dopo i primi 10 chilometri iniziamo a percorrere una valle che si restringe sempre più per trasformarsi in una stretta gola che sfocia poi nel wadi Dayan, ricco di manghi, banani e varie piante tropicali. Umido e afa.

La guide ci portano in un “villaggio africano”. È una delle esperienze più imbarazzanti della mia vita da turista; praticamente piombiamo in casa di questi signori con le nostre rumorose e fastidiose jeep, ci sentiamo degli alieni (e giustamente veniamo guardati come tali), ce ne andiamo in fretta e raggiungiamo Hodeidah. Di affascinante le è rimasto solo il nome e l’unica attrazione dell’antico polo dell’esportazione di caffè e perle è rimasto il mercato del pesce, animatissimo e colorato, dove cernie giganti, squali, gamberi enormi sono oggetto di contrattazioni stile Borsa pre-telematica.

Siamo tornati a Sana fermandoci a Suq al Khamis per il mercato, ma adesso sono veramente stanca morta e non ho alcuna voglia di scrivere. Peccato. Il mercato è intrigante, me ne rimarrà il ricordo solo dalle immagini che si fermeranno nella mia mente (oltre a quelle della macchina fotografica eh eh eh).

SANA: UNA CITTÀ DI CIOCCOLATA

Ieri sera siamo andati nella città vecchia di Sana. L’ingresso dalla bab al Yemen è emozionante. Sembra di entrare in una città di cioccolata con la glassa bianca a definire i contorni delle case. E quando dico emozionante non uso un aggettivo a caso: il cuore mi batte fortissimo e mi scendono due lacrimoni che non riesco a trattenere.

Giriamo un poco per le strade del quartiere dei falegnami per andare poi all’Hotel Sana dalla cui terrazza si vede il tramonto sulla città vecchia. L’occhio spazia su tutta la città che è, a 360°, ai nostri piedi, ma abbiamo perso il tramonto per pochi minuti. Bisogna tornarci.

Questo viaggio mi sta piacendo moltissimo e i miei compagni di viaggio sono proprio simpatici; è la prima volta che in un viaggio di questo tipo mi sento così tranquilla e rilassata. Ceniamo in un ristorante abbastanza lussuoso per i nostri standard dove spendiamo ben 12000 rial (circa 50 euro) in 15. La camera con colazione al nostro hotel costa 1600 rial (circa 7 euro).

El Amari, il corrispondente di Avventure, è un personaggio da film: claudicante, jalabiyya candida, capello crespo, occhio vigile e sempre in movimento. Seduto per terra nel suo studio tratta i soggiorni, la composizione degli equipaggi (si esibisce in una sceneggiata teatrale quando gli facciamo le nostre rimostranze per la guida e ci assicura che “quel somalo” non lavorerà più per lui; per fortuna il giorno dopo, vediamo “quel somalo” tranquillamente riassegnato a un altro ignaro gruppo), cambia euro, dollari e rial con la velocità di un impiegato di banca, tirando fuori le diverse valute da sacchetti di plastica che si accumulano al suo fianco. Lucia lo definisce Shylock ed è un nome azzeccatissimo.

A MARIB, IN COLONNA E CON SCORTA ARMATA

La mattina si parte per Marib. La partenza è piuttosto complessa perché bisogna formare un convoglio che poi, alle 9, partirà per l’area di Marib con una scorta militare piuttosto imponente. La discesa dall’altopiano verso il deserto è lenta. Ogni 5-6 chilometri c’è un posto di blocco e frequentemente ci dobbiamo fermare per ricompattare la cinquantina di jeep che compie la traversata.

Dopo circa 3 ore arriviamo a Marib e ci raccomandano di stare sempre insieme perché quella è la zona dei rapimenti (l’ultimo è di una settimana prima, una famiglia di tedeschi). Alì, la nuova guida, è molto efficiente e attento; è un mingherlino di 19 anni ma si fa valere.

La città vecchia è una specie di casbah in rovina; i continui solleciti della nostra guida a rimanere in gruppo e a non allontanarci, per evitare brutte sorprese, sfumano un po’ il fascino della spettrale città vecchia. Della vecchia diga è rimasta solo una delle chiuse ma dà l’idea della grandiosità dell’opera; il bacino della diga nuova è invece colmo d’acqua; nella vallata la ricca vegetazione contrasta con il crudo paesaggio di rocce rosse. Per arrivare a Marib attraversiamo una zona vulcanica dove colline nere si stagliano sulla sabbia bianca.

Il tempio del trono di Bilqis (arsh Bilqis) è un po’ deludente anche a causa del restauro decisamente invasivo mentre non possiamo entrare nel tempio di Mahran Bilqis sempre perché in restauro. Verso le 16.30 ci muoviamo verso il deserto.

Per circa 2 ore la strada è asfaltata, poi ci addentriamo nella pista. A Marib la scorta militare è stata sostituita da una “guida” beduina; di fatto è impossibile entrare in questa zona senza guida beduina perché le tribù locali se ne fanno un baffo del potere centrale. I posti di blocco si susseguono comunque ogni 10 chilometri; in tutti ci sono almeno 2-3 soldati ma proprio al tramonto transitiamo da uno dove c’è un soldato solo, in una landa desolata, con una piccola garitta alta non più di un metro e mezzo. Ha uno sguardo allucinato e la faccia deformata dal qat. Ma cosa avrà mai combinato per essere segregato in quell’avamposto dell’inferno?

Notte in tenda.

VERSO SHIBAM, QUADRILATERO DI GRATTACIELI

Sveglia alle 7 e partenza per Sayyun. Attraversiamo un’incudine piatta e infuocata che si perde all’orizzonte. Arriviamo nell’Hadramouth, in lontananza montagne scoscese erose dal vento, poi la vallata si restringe (sempre relativamente perché è comunque molto ampia) e inizia la vegetazione, prima timida e sparuta poi rigogliosissima.

Figata. A Sayyun un fantastico hotel con doccia!

Ieri sera abbiamo aspettato la mezzanotte al bordo della piscina dell’hotel dove abbiamo brindato con coca cola e birra e ballando latino-americano.

Questa mattina sveglia alle 6.45, ci aspettano Tarim e Shibam ma prima facciamo un giro per Sayyun per visitare il palazzo del sultano.

Tarim è veramente inospitale, è l’unica città dove, fino ad ora, percepisci chiaramente l’ostilità della gente del posto. Andiamo alla biblioteca, attrattiva del posto, ma i manoscritti visibili sono pochi. Ce ne andiamo velocemente.

Shibam è uno spettacolo incredibile… nel senso che proprio non ti sembra vera. In mezzo a una piatta deserta, un quadrilatero di grattacieli di terra cruda alti 8-9 piani. E dentro è quasi magica, con i suoi vicoli stretti, testine di bimbi che fanno capolino dalle finestre intarsiate, capre che gironzolano tranquillamente per le strade. Finalmente mi perdo e giro per un’oretta da sola in questa città dove mi fa compagnia solo il silenzio. Quando raggiungo gli altri mi prendo una bella romanzina, meritata, da Alì… so che ha ragione, ma io me la sono proprio goduta.

Mentre torniamo a Sayyun, la brutta notizia: 5 italiani sono stati rapiti nella zona di Marib (arrivati in albergo scopriamo che sono di Avventure). Non posso più tenere il cellulare staccato, ovviamente da casa vogliono avere notizie e io tranquillizzo tutti.

Deviazione in un wadi. Ogni villaggio è un piccolo gioiello.

Siamo abbastanza preoccupati per quello che sta succedendo ai 5 italiani. Pare che questa volta il governo non voglia fare concessioni e abbia deciso di reagire duramente: di solito non finisce mai bene quando si intraprende questa strada. Speriamo ci ripensino.

Noi partiamo verso il sud. Sono le 7.30. Entriamo in un grande wadi ricco di vegetazione, i cui villaggi sono stati costruiti dagli yementi emigrati in India e infatti l’architettura è un misto yemenita-indiano con intonaci pastello sulle case di terra cruda. Sif, al Haggira… ogni villaggio è un piccolo gioiello. Usciti dal wadi risaliamo le falesie erose dal vento e proseguiamo sull’altopiano il viaggio verso Mukhalla, la discesa sarà poi altrettanto maestosa. Arriviamo a Mukhalla verso le 18. Ottima cena a base di gamberoni e altri crostacei che non riusciamo a identificare. Le notizie del rapimento sono sempre più inquietanti: la polizia vuole attaccare i ribelli.

BIR ALÌ, PARADISO TERRESTRE

8.30 partenza per Bir Ali. All’uscita da Mukhalla ci fermano dicendoci che ci vuole la scorta per proseguire (è una novità, ma probabilmente la questione del rapimento ha fatto serrare le fila). Nella strada per Bir Ali la costa alta e frastagliata si alterna a rocce vulcaniche adagiate su un letto di sabbia candida.

Il villaggio di Bir Ali è un vero letamaio, non credo di avere mai visto nulla di peggio, ma dopo due chilometri, il paradiso terrestre. Sabbia come borotalco, mare cristallino e acqua calda.

Un tuffo e poi partita Italia-Yemen tra gli uomini del nostro gruppo e ragazzi del posto.
Giornata ventosissima, cielo coperto e pioggerella.

La mia ricerca di qualche momento di solitudine mi mette nei guai. Mi arrampico su una montagnozza al limitare della spiaggia, la vista dall’alto è magnifica ma, al momento di scendere, non capisco più da dove sono salita e mi sembra impossibile riuscire a muovermi da lì. Ho il cellulare e, quindi, mal che vada, posso chiamare qualcuno del gruppo in soccorso, ma il mio orgoglio si ribella alla conseguente figura da imbecille. E così, piano piano, con tutte le precauzioni possibili, inizio a scendere. Ma giuro a me stessa che non sarò più così idiota.

Sulla strada del ritorno facciamo una passeggiata al limitare di un lago vulcanico. Sosta al mercato locale di Mukhalla. Alle 18 siamo in aeroporto. Sfatti.

RITORNO… E LIBERAZIONE DEGLI ITALIANI RAPITI

Ieri sera in albergo c’erano gli amici dei rapiti e il marito di una di loro. Abbiamo chiacchierato un po’. Erano partiti dall’Italia il 27 per uno Yemen breve e il 1° erano andati a Marib. Al ritorno non avevano la scorta (che avevano detto loro non essere prevista… e io mi chiedo come sia possibile che ci sia tutto quell’ambaradan per l’andata e niente per il ritorno; il sospetto che sia stata una cosa combinata è ovviamente alto, ma nessuno vuole entrare nei particolari e noi non ci sentiamo certo di chiederne dato che ogni notizia può provocare danni ai rapiti): una decina di beduini armati ha bloccato la prima jeep, ha tirato giù l’autista e se ne è partita; poi hanno cercato di prendere anche la seconda jeep ma un camion che ha capito cosa stava succedendo si è messo in mezzo e lo ha impedito. Comunque sembra si stia muovendo qualcosa di positivo.

Oggi siamo stati in giro per Sana. Mercato, mercato, mercato, acquisti, acquisti, acquisti. E finalmente tramonto sulla terrazza dell’hotel Sana dove il richiamo alla preghiera dei muezzin ci regala l’ultimo momento magico di questa vacanza yemenita. Arriviamo così al giorno prima della partenza e anche se le cose che vediamo sono bellissime (dal palazzo dell’imam di Dar el Hajar al villaggio abbandonato di Bayt Baws) abbiamo un po’ di malinconia. Che però sparisce in grandi sorrisi liberatori quando apprendiamo che i 5 italiani sono stati rilasciati.

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