
Dalla tranquillità del Laos al caos di Phnom Penh e alla super turistica Angkor che, nonostante le centinaia di turisti che la popolano, riesce comunque a stupire. Stupore che aumenta navigando sotto le palafitte del villaggio di Kompong Phhluk durante il nostro breve viaggio in Cambogia
31 dicembre 2012 – 4 gennaio 2013
Con la partenza da Vientiane si era concluso il nostro viaggio in Laos. Alle 11.30 volo per Phnom Penh, arrivo alle 13. La prima impressione di Phnom Penh non è piacevole: l’impatto con la capitale cambogiana, dopo la pace del Laos, è piuttosto sconvolgente: traffico, clackson, grida. Tutto che riprende a correre alla velocità urbana alla quale siamo abituati. Dopo una brevissima sosta in hotel per depositare ii bagagli andiamo subito al Palazzo Reale, in realtà il Palazzo vero e proprio non è accessibile e quindi ci limitiamo a visitare l’area circostante entrando nella Pagoda d’Argento: l’insieme è deludente. Costruito nei primi del ‘900 in stile khmer, ha subìto notevoli distruzioni nel periodo bellico e le parti rifatte sono visibilmente in cemento.
LA SCUOLA DEGLI ORRORI
Un vero pugno nello stomaco è invece la visita alla scuola S21
Luogo di detenzione nel periodo di Pol Pot, la scuola è oggi un museo degli orrori del regime. Utilizzate come stanze per gli interrogatori, in pratica sale di tortura, e come luoghi di detenzione, le aule hanno un aspetto sinistro e sembrano sprigionare l’odore del terrore che vi ha regnato per 3 anni.
Sono tre edifici a ferro di cavallo destinati ai prigionieri, più un quarto per gli uffici amministrativi.
Davanti a uno degli edifici 14 tombe bianche contengono i resti dei cadaveri trovati nelle celle dopo la fuga dei Khmer Rossi.
Nel primo edificio, le celle dei detenuti di alto rango, rimaste come erano: un letto di metallo, le catene per legare i malcapitati e vari strumenti di tortura.
Nel secondo edificio, alcune delle aule sono rimaste allestite come nel triennio della follia: celle individuali di 80 centimetri per 2 metri, al piano terreno in muratura per gli uomini, al secondo piano in legno per le donne, al terzo le celle per le detenzioni di massa.
Giacere seminudi sul pavimento, vietato parlare o lamentarsi, obbligatorio chiedere il permesso per cambiare posizione o servirsi dei secchi per i propri bisogni: queste le regole da rispettare, pena un numero variabile di frustate.
Una parte, non accessibile, contiene i faldoni degli archivi con i verbali delle “confessioni” delle quali si può avere un “assaggio” nelle tre o quattro messe a disposizione nell’area aperta al pubblico.
E poi le fotografie degli internati: uomini e donne di tutte le età, compresi ragazzi giovanissimi e alcuni bambini.
Si stima che circa 17.000 persone siano passate da questo carcere (punta di diamante di un sistema carcerario che vedeva luoghi simili disseminati in tutto il paese), quelle che sopravvivevano alle torture venivano portate ai campi di sterminio che popolavano il paese. 7 sono i sopravvissuti tra coloro che sono passati dalla scuola.
Diretto dal “compagno” Duch, il carcere occupava circa 1.720 tra addetti agli uffici, agli interrogatori e lavoratori generici. Alcuni di essi erano bambini strappati alle famiglie dei prigionieri; moltissimi ragazzini tra i 10 e i 15 anni, resi sadici e spietati da un apposito addestramento impartito loro dai quadri adulti.
Proseguire la visita fino alla fine è impossibile, preferisco sedermi sotto gli alberi del cortile.
Il ritorno in hotel è, come logico, piuttosto mesto e, come sempre in questi casi, mi tornano in mente le parole di Hanna Arendt in “La banalità del male”.
Decidiamo comunque di fare una passeggiata prima di cercare un ristorante per la cena, abbiamo capito che sarà un po’ difficile trovare qualcosa dato che non abbiamo considerato che si tratta della sera del 31 e, tutto sommato, anche qui si festeggia l’anno nuovo, quanto meno a beneficio dei turisti.
Quella della passeggiata si è rivelata un’ottima decisione perché la visita al Wat Phnom, situato sopra un poggio alberato, ci riappacifica con il mondo e, tornati in hotel, decidiamo di prendere un tuk tuk e farci portare sul lungo fiume: vedremo lì quel che si trova.
Alla fine capitiamo casualmente in quello che, scopriamo poi, le guide definiscono il miglior ristorante thai di Phnom Penh: la cena, in effetti, è gustosissima.
TRAMONTO AD ANGKOR WAT
Partenza alle 8.30 direzione Siem Reap dove arriviamo circa alle 15. Rapidissima sosta al Freedom Hotel e via per Angkor.
Considerato il parco archeologico più esteso del mondo, Angkor è costituito da due grandi complessi, Angkor Thom e Angkor Wat, e una serie di altri templi sparsi nella giungla. Per la parte più strettamente stoica vedi Il complesso archeologico di Angkor

Prima tappa Angkor Wat: visita e tramonto
La prima tappa è Angkor Wat, tempio unico nell’architettura khmer che combina il tempio-montagna, cioè il progetto standard per i templi nazionali dell’impero, con il successivo piano di gallerie concentriche.
Il tempio è la rappresentazione del Monte Meru, la casa degli dei: le cinque torri centrali simboleggiano i cinque picchi della montagna, mentre le mura e il fossato simboleggiano le montagne e l’oceano che la circonda. L’accesso alle zone più elevate era via via sempre più esclusivo, e le persone normali erano ammesse solo nel livello più basso.
I primi minuti della visita ci fanno temere il peggio: la guida corre come un forsennato, senza neanche darci il tempo di guardarci intorno.
Solo il residuo di pace laotiana che ancora mi è rimasto mi trattiene dal reagire come una milanese isterica, e per fortuna perché la guida ci spiega che mancano pochi minuti alla chiusura della scalinata all’ultimo piano del tempio centrale (che non è aperta tutti i giorni) quindi la maratona ha un motivo.
Del resto sperare di gustare in tranquillità la magia di questo posto è una pia illusione.
Ci sono centinaia di turisti che si muovono a frotte e anche se io non amo visitare i siti archeologici con una guida, devo presto arrendermi all’evidenza che sarebbe impossibile orientarsi in questo posto in soli 2 giorni e mezzo senza un supporto.
Inevitabilmente quando si fanno viaggi di questo tipo si è omologati, inutile sperare di essere viaggiatori, siamo tutti solo semplici turisti anche se recalcitranti nell’accettare questa definizione e tentati a considerare con sufficienza e ironia i nostri simili armati di macchine fotografiche, zainetti e cappellini.
Personalmente mi sono arresa da tempo alla realtà, quando posso (raramente) sono una viaggiatrice, per il resto sono una turista e quel che posso fare è assumere questo ruolo nel modo meno molesto possibile.
Basta digressioni, torno al diario. Nonostante la ressa, il tramonto con il tempio che si rispecchia sul piccolo lago artificiale antistante è comunque da non perdere.
Ottima cena al ristorante dell’hotel: lasciamo fare a loro e ci portano dei gamberetti fantastici, una zuppa molto gustosa e varie insalate, carni ecc.
I TEMPLI DALLE BRACCIA TENTACOLARI
Oggi Ta Prohm, Ta Keo, Preah Khan e Angkor Thom.
Tempio Ta Prohm
Ta Prohm, fagocitato dalla giungla, è il tempio degli alberi che trattengono le mura nel proprio ventre, costruito da Jayavarman VII in memoria della madre è veramente un posto magico. Arriviamo presto e non c’è tanta gente, per cui riusciamo a godercelo con calma.
Non sono tanto le costruzioni in sé ad essere sconvolgenti quanto la testardaggine della natura nel voler riprendere possesso di questi luoghi; le radici degli alberi avvinghiano i templi in una morsa che non lascia scampo e questi giganti dalle braccia tentacolari che trattengono le pietre, si insinuano tra le colonne e stritolano balaustre mi incutono soggezione: mi viene quasi voglia di parlare a questi alberi, di chiedere loro di risparmiarmi, di non ingoiare anche me.
Tempio Ta Keo
Del Ta Keo, 28 metri di altezza, dedicato a Shiva è realizzato in arenaria ed è opera di Jayavarman V (968-1001), mi è rimasta impressa la scalinata, dire ripida è sicuramente riduttivo.
Tempio Preah Khan
Nel Preah Khan, labirinto di padiglioni, sale e cappelle, costruito nel 1191 come tempio buddhista da Jayavarman VII in memoria del padre, è piacevolissimo perdersi.
ANGKOR THOM, ULTIMA DELLE CAPITALI DELL’IMPERO KHMER
Ed eccoci all’Angkor Thom, nome che identifica l’ultima delle capitali dell’Impero Khmer.
Chiamata dai contemporanei Yasodharapura, come le altre città che l’avevano preceduta nello stesso sito, fu fondata nel tardo dodicesimo secolo dal re Jayavarman VII dopo i saccheggi dei Champa del decennio 1170-1180.
Copre un’area di circa 9 km² in cui si trovano diversi monumenti, sia di epoche precedenti sia costruiti da Jayavarman VII e suoi successori.
Ci fermiamo sulla Terrazza degli Elefanti, quindi saliamo sul Phimeanakas, giriamo intorno al Baphoun dove il muro del secondo livello è fatto da un Buddha disteso lungo 40 metri, infine saliamo sul Bayon, maestoso.
Bayon, il tempio montagna
Il Bayon è il tempio-montagna centro del culto di stato di Jayavarman VII, ospita circa 200 volti giganti scolpiti perlopiù sorridenti e vi si trovano anche due gruppi di notevoli bassorilievi, di 1200 m di lunghezza e con più di 11.000 persone scolpite
Tentiamo l’esperienza di andare a vedere il tramonto in cima alla collina dove si trova il tempio di Phnom Bok, ma è veramente troppo: la quantità dei turisti concentrata in poche decine di metri quadrati è decisamente esagerata, inoltre manca ancora almeno un’ora al calare del sole: l’omologazione ha un limite e ce ne andiamo dopo 10 minuti.
Relax in albergo e cena al ristorante Arun di Siem Reap.
MEDAGLIA D’ORO DEL TURISTA
Oggi ho veramente guadagnato la medaglia del turista perfetto: sveglia alle 5 per vedere il sole che sorge dietro l’Angkor Wat in compagnia di almeno altre 3-400 persone: è una corsa ad accaparrarsi il posto migliore per lo scatto (fotografico) del giorno. Magia zero, ma divertimento tanto, soprattutto a fotografare i fotografi!
Dopo avere consumato la nostra colazione al sacco, ci fermiamo al Pre Rup, dedicato a Shiva e costruito da Rajendravarman II nel X secolo era un tempio funerario nel quale venivano cremati i cadaveri.
Nel villaggio galleggiante di Kompong Phhluk
Ed eccoci di nuovo in bus diretti al Banteay Rey, a circa 20 chilometri da Angkor, piccolo gioiello costruito in pietra rosata. Iniziato nel 967 il nome del tempio significa “cittadella delle donne” (si ipotizza sia stato fatto costruire da una donna) e presenta sculture e bassorilievi di particolare raffinatezza.
Abbiamo poi in programma di andare a vedere un villaggio sul Tonle Sap, lago formato dal Mekong; dalle descrizioni delle guide sembra interessante, ma quello che ci si para davanti dopo una decina di minuti di navigazione è veramente sorprendente.
Un intrico di palafitte, alte 5-6 metri, con colori, fiori, panni stesi, Kompong Phhluk, questo è il nome del villaggio, è un universo veramente particolare ai margini della foresta alluvionale.
Ultima visita ai templi: Roluos
Rientrando ci fermiamo al complesso dei templi di Roluos, a circa 13 km da Siem Reap, bello anche se, dopo la scorpacciata di templi khmer di questi giorni siamo un po’ stremati, tant’è che la vera cosa che mi è rimasta in mente è l’intraprendenza di un cambogiano che ci ha fatto una fotografia all’ingresso del tempio, mentre ci veniva controllato il biglietto, per poi presentarci, all’uscita dell’altra parte del templio, un kitchissimo piattino con la nostra faccia stampata sopra (e il bello è che quando siamo passati dall’uscita la ragazzina incaricata di proporci i piattini, ci ha riconosciuto subito proponendoci proprio quelli con le nostre facce).
Tanto ingegno andava premiato e quindi abbiamo acquistato questa “meraviglia” di souvenir!
Abbiamo concluso il pomeriggio con un giro nel centro di Siem Reap: piacevole.
Mattinata a dormire, bighellonare e a leggere nella piscina dell’albergo.
Alle 12 bus per Bangkok. Ci mettiamo parecchio, quasi 2 ore, a passare la frontiera e la strada per la capitale tailandese si rivela lunga e noiosa.
Arriviamo alla periferia di Bangkok verso le 21 ma ci mettiamo un’ora ad attraversarla e raggiungere l’albergo nei pressi dell’aeroporto Don Muang.
L’indomani, partenza alle 10.25 per Calcutta, arrivo alle 11..45 e ripartenza alle 20.30. Arrivo a Dubai alle 00.30 e volo per Milano alle 3.40 dove arriviamo alle 7.45 del 6 gennaio.