Donatella, compagna di viaggio, ha scritto questa “cronaca semiseria” dei nostri 17 giorni in Laos e Cambogia che volentieri pubblico perché nel “vedere” lo stesso viaggio con gli occhi di un’altra persona si scoprono cose che erano sfuggite, si provano emozioni diverse … insomma è un po’ come rifare il viaggio.
In questo articolo il “racconto” del Laos che poi prosegue nella sezione Cambogia
Prima del viaggio
All’età di 14 anni lessi Odore dell’India, un piccolo ed intenso libro di Pasolini. Descriveva un continente attraverso gli odori. Mi dissi che da grande sarei andata in India. Non so se sono mai diventata grande, ma in India ci andai. Il paese delle grandi contraddizioni. O l’ami o l’odi; io l’amai.
Iniziarono così i miei passi verso Oriente.
Cosa ne sapevo del Laos prima di partire? Qualche lettura, qualche ricordo di telegiornali che mandavano immagini in bianco e nero di disperazione e incursioni aeree degli anni ’70; anni in cui mio padre insistentemente passava da un “radiogiornale” all’altro, primo e secondo canale t.v, pretendendo silenzio da parte dei presenti.
E sono ancora una volta gli odori a condurre la mia memoria verso luoghi ed incontri.
Verso la meta
Il Laos accoglie il nostro gruppetto in modo sorridente e rilassato. Aspiro aria di verde e di fumo di legna. La grotta calcarea di Kao Rao odora di chiuso e di umido. E’ impegnativo ed affascinate il percorso ad ostacoli che dobbiamo percorrere al buio; si scivola e non si vede ad un palmo oltre al fascio luminoso delle torce. Provo a muovere il mio passo sulla destra dove, con l’inganno, credo che vi sia uno slargo più agevole. I piedi perdono presa dal fondo, scivolo verso …verso qualcosa che non vedo ma credo sia sabbia. E invece no! Scivolo clamorosamente in una pozza. Ora sono io ad odorare di acqua, di fango, di umida acqua fangosa.
Ho fatto splash!
Mi sono detta:” benvenuta in Laos”.
Il pulmino, o meglio i pulmini, considerato che abbiamo cambiato almeno una decina di mezzi, e ancor più autisti, ci permettono di far conoscenza tra di noi. Inizialmente non sono gli odori a dare indicazioni, siamo ancora lindi e puliti, non abbiamo comprato cianfrusaglie, in Laos non fa neppure molto caldo se non nelle ore centrali della giornata. Riconosco subito l’essenza profumata che una delle amiche indossa. Sia il nome, Kashmir, che i ricordi, mi riconducono al continente indiano. Non ci credo ma deve essere nel mio karma, quel filo conduttore al quale non si sfugge, dal quale non voglio fuggire.
Giampiero, il nostro coordinatore, sembra simpatico, sicuramente disponibile verso il gruppetto ridotto e ben motivato di viaggiatori. E’ romano ma vive in Veneto, viaggia con la sua compagna, Patrizia. Una bella coppia. Lui, attento nel risolvere i problemi pratici, lei sempre presente con il suo fluente inglese per cercare di capirci in modo univoco.
Il viaggio di avvicinamento alla meta è lungo, il piano dei voli demenziale. Quando arriviamo al nord della Tailandia, punto di accesso verso il Laos, siamo tutti stanchi e frastornati.
Al mattino però, quando con lunghe barche ed alla chetichella, per via di una strana regola che se si viaggia in più di tre persone bisogna accollarsi una guida, attraversiamo il grande fiume, il Mekong, dalla sponda tailandese a quella laotiana. Il mondo mi pare straordinario, penso che il viaggio vada vissuto.
Trovo assai divertente lo sbrigare le pratiche del visto d’ingresso. Una volta sbarcati, si sale una gradinata, si compila un foglietto con i soliti dati, si consegna foglietto e passaporto ad una gentile signorina al di là di un vetro. Si attende di essere chiamati, si pagano 36 dollari quindi viene rilasciato passaporto con visto d’ingresso. Ma nell’attesa, nemmeno tanto lunga, si può sbirciare oltre il vetro. L’ufficio dei visti ha un tavolo ricoperto da un tappeto con le frange dai colori sgargianti, attorno al quale stanno quattro o cinque funzionari, ognuno addetto a mettere un timbro o una firma prima di riconsegnare i passaporti alla gentile signorina del vetro che a sua volta chiama per nome i titolari dei passaporti in mezzo ad una piacevole ressa. Più che un ufficio di frontiera sembra il salottino della Signorina Felicita, di scolastica memoria.
Laos: avvicinamento
Il paesaggio del Laos è davvero particolare, il verde e la vegetazione la fanno da padrone. C’è odore di erba e di bambù, di verde e di grandi alberi. Mi colpiscono i picchi, simili a guglie dolomitiche, rivestite di vegetazione fin sul cocuzzolo. Percorriamo una buona ma tortuosa strada che costeggia tanta vegetazione e qualche casupola a palafitta. Ripenso ad un viaggio in Cina di molti anni prima, le case presentano la stessa identica tipologia di costruzione. Ma siamo al nord del Laos e la regione dello Yunnan non è così lontana. Segno che non sono i confini geografici a codificare le differenze o le appartenenze. Trovo affinità anche nei mercati che la gente delle aree più impervie improvvisa ai bordi delle strade per vendere i loro prodotti. Sono soprattutto donne quelle che, sedute su sgabellini alti non più di dieci centimetri si accovacciano, spesso con bimbetti al seno, dietro a bancarelle di idonea altezza, in attesa di clienti per le loro mercanzie. Vendono verdure a noi sconosciute, semi, erbe, ma soprattutto animali di ogni genere, vivi o morti. Non mancano uccelletti e topastri, cose per altro già viste nel mio peregrinare, ma mai mi era stato offerto di comprare pipistrelli. Si può scegliere tra quelli morti, ma freschi cioè ancora caldi, o quelli già arrostiti. Lascio il reparto “selvaggina” e cerco un contatto con il personale del settore verdure e sementi. Le donne si mostrano ben contente del mio interessamento ai loro prodotti, sono incuriosita da alcuni semi dal buon sapore che vengono estratti mediante battitura di una sorta di noce forata. A gesti capisco che si tratta di un frutto che raccolgono da alberi in montagna. Mi offro di aiutare in questo lavoro, non c’è modo di comunicare se non con i sorrisi e con le azioni, ma è chiaro che tutti siamo contenti, ho anche una discreta manualità nell’estrarre i semi, altre donne si avvicinano, ogni tanto ridono è probabile che mi stiano prendendo in giro. Compro un paio di sacchettini di semi, una delle signore, più intraprendete delle altre, scavalca la sua bancarella e si avvicina per fare una foto. Sento affetto nel suo braccio che stringe il mio per stare vicina.
Nel pomeriggio arriviamo a Luang Namtha prendiamo alloggio in una graziosa struttura a due piani con una decina di stanze. I pavimenti sono in assito di legno, vige la regola che si entra scalzi. Mi adeguo con intrinseco piacere. Deponiamo le nostre valige, cerchiamo di togliere il fango dai pantaloni; facciamo presto, vogliamo uscire alla scoperta della cittadina. Rossana, la mia compagna di stanza per l’intero viaggio, dopo aver esaminato il bagno dice di voler chiedere uno straccio ed una scopa, indispensabili a suo dire, per far defluire l’acqua della doccia verso lo scarico. Io l’ascolto perplessa non mi pare che ve ne sia alcun bisogno. Il discorso cade, non vedo alcun seguito a questo proponimento ed io non me ne curo proprio. Penso che sia un po’ spaventata dal fattore igiene, viaggia con amuchina e pigiami integrali, ma qui sinceramente non ne vedo necessità. Tutto è modesto ma la biancheria è pulita. Condividiamo anche un discreto letto matrimoniale, alla sera tentiamo di leggere alla luce fioca di lampadine dalla posizione impossibile. Proprio un bel quadretto, sottolinea la mia compagna, “sembriamo Sandra Mondaini e Raimondo Vianello!!!” I due non mi sono mai stati simpatici, ma convengo che la situazione è più che azzeccata.
Questo alberghetto ci riserverà altre sorprese, come le croccanti baguette servite a colazione, ma non solo.
Nel retro, all’esterno delle stanze, c’è anche una piccola lavanderia e un patio dove gli ospiti stendono panni o lasciano le scarpe. Quando usciamo incontro Germana che non sta più nella pelle per raccontare cosa era poco prima capitato. Giovanna, la sua compagna di stanza nonché amica di lunga data, aveva deciso di lavare le scarpe. Si era applicata molto per far si che venissero belle pulite, le aveva strofinate alacremente, prima una e poi l’altra. A lavoro ultimato Giovanna è perplessa. Le scarpe, che con tanta buona volontà aveva lavato, non erano le sue!!! Germana racconta il fatto ridendo di gusto coinvolgendoci in una risata contagiosa.
Al tramonto visitiamo uno stupa di recente costruzione ma assolutamente suggestivo per i colori e la posizione in cui si trova¸ in alto su una collinetta. Scendiamo che è buio, c’è odore di cibo nelle padelle, c’è silenzio, le luci artificiali sono davvero poche, le stelle davvero tante. Si sente il vociare sommesso di bimbi per strada. Si sentono rumori e voci del paese che sta per chiudere la giornata. Provo una straordinaria sensazione melanconica verso qualcosa di assolutamente naturale ma nel nostro mondo, irrimediabilmente perduto.
E’ presto per andare a cena ci infiliamo nel night market e ci facciamo irretire dagli odori di carne alla brace. Propongo un aperitivo. Cuociono di tutto, spiedini di pollo, maiale, fegato, zampe di gallina, noi prendiamo della gustosissima anitra arrostita. La carne viene servita su delle foglie di banano, poi si peregrina su un’altra bancarella e si compra la birra, una specie di festa dell’unità vecchia maniera, ci si siede dove si trova posto e si consuma quanto acquistato un po’ qui un po’ la, senza posate e senza coperto. Quando andiamo a cena ci fanno aspettare non poco. Ordiniamo di tutto, quando arrivano le otto porzioni di spring rolls capiamo di aver veramente esagerato.
Il giorno seguente muoviamo verso Nong Khiaw, una cittadina o meglio, un grande villaggio, disteso lungo le sponde del Nam Ou, un affluente del Mekong. Da qui, all’indomani, partiremo per la navigazione e per il trekking ai villaggi del nord. Alloggiamo in piccoli graziosi e più che spartani bungalows, dalle pareti di paglia e cartone, in riva al fiume. Il paesaggio è incantevole. Ci concediamo qualche ora di relax con sauna e massaggi. Quando arriva il mio turno una ragazza mi fa cenno di seguirla. Entriamo in un padiglione costruito interamente in legno e bambù con me c’è Germana, non sappiamo bene che cosa abbiamo concordato e ci sottoponiamo docili al trattamento, divise da un tramezzo in legno ciascuna sul proprio lettino. Il massaggio inizia dai piedi, soffro il solletico, la ragazza lo capisce e mi sorride. Con Germana ci scambiamo qualche impressione, il percorso delle due massaggiatrici sembra identico. Il trattamento dura quasi un’ora ed è molto piacevole. Ad un certo punto altri componenti del nostro gruppo irrompono nel salone, non li vediamo, ma li udiamo. Sentiamo Rossana e Giovanna sghignazzare, sentiamo Silvano indispettito perché quanto stanno facendo non è quello che lui si aspettava.
Silvano il decano del gruppo, mostra subito grandi doti di conoscenza, autonomia e caparbietà. E’ un bel signore dall’età avanzata, un ex magistrato, un giudice rosso nell’appellativo odierno. Mi piace molto ascoltare i suoi racconti è un uomo dalle mille risorse. In certi gesti mi ricorda mio padre. L’ultima sera quando stremati arriviamo all’hotel Amari di Bangkok, una struttura dal lusso esagerato ma con la comodissima soprelevata che dallo stesso conduce direttamente all’interno dell’aeroporto; l’ultima sera appunto, dopo aver cenato all’interno dell’hotel in una sorta di locale tipo pub londinese, Silvano mi ha fatto omaggio di un suo libro: Un lungo ponte sospeso. Metamorfosi. Un intrigante romanzo.
I villaggi del nord
Il 26 di dicembre l’avventura laotiana entra nel pieno delle emozioni, prendiamo una barca navighiamo per un po’ in questo guscio rumoroso, approdiamo in uno slargo privo di vegetazione sulla sabbia. C’è odore di fumo e di qualcosa di indefinito. Iniziamo a camminare, attraversiamo risaie asciutte e guadiamo più volte corsi d’acqua limpidi e freschi. Non sono molti gli incontri almeno fino al villaggio nel quale saremo rifocillati. Una ragazza vedendoci arrivare corre verso di noi portando una sporta. Ci offre orgogliosa la sua selvaggina: topi freschi. Decliniamo l’acquisto e tiriamo avanti. Giungiamo al villaggio di Ban Pha Yong, l’ingresso all’area abitata è, per un tratto di qualche centinaio di metri, strutturato con una sorta di sentiero delimitato da una recinzione fatta di bambù e foglie di banano. Il villaggio consta di un’ampia e sterrata via centrale con ai lati delle case in legno, non propriamente allineate, ma l’organizzazione suggerisce un’idea di ordine. Nessuno chiede nulla, qualche bambino ci saluta, non esistono accattoni. La strada in terra battuta è pulita. Mi soffermo a guardare tre ragazzini, non avranno avuto più di cinque anni, giocare un gioco per me inedito. Avevano piantato nella sabbia due piccoli bastoncini tendendo tra di essi un elastico. A turno ad una distanza di qualche passo, tentavano, con un secondo elastico tra le dita spedito in direzione dei bastoncini, di far cadere quello teso tra i due paletti microscopici piantati a terra. La mia presenza non li turba minimamente, continuano imperterriti il loro gioco. Inamovibili ed attentissimi si sono dimostrati anche i bambini che più avanti abbiamo incontrato nella scuola del villaggio di Ban Sobkan, lo stesso nel quale poi pernotteremo. A Ban Pha Yong siamo attesi, consumiamo un pasto entro un pentolone comune contenente carne di pollo, manzo e verdure, per ognuno invece c’è una specie di mattone di riso “stichi rice” avvolto in foglie di banane. Questo riso ha l’aspetto di una pastecca di amido che lavorata con le mani prende tutte le forme desiderate. Se ne può far palline oppure si accompagnano i pezzi di carne e si raccoglie un po’ di sugo dal pentolone. Tutte le famiglie ne fanno uso, i bambini lo mangiano a colazione e se lo portano in cartella a scuola per la merenda. Durante la sosta cerco un contatto con un gruppetto di donne sedute quasi per terra davanti ad una delle loro case. Apparentemente stanno li a non fare nulla, osservano con un occhio i bambini più piccoli, un altro gruppetto invece traffica con dei tessuti ricamati, pare che una delle donne sia più esperta di altre e dia consigli su come procedere con il lavoro. Mi avvicino alle tre donne accovacciate davanti a casa, un bambinello sta sull’uscio indeciso se nascondersi o uscire. Cerco di capire l’età di queste donne, vado verso di loro con gran sorrisi facendo apprezzamenti sui loro orecchini ben più elaborati dei miei. E’ una tecnica che ho già sperimentato in altri viaggi, sono orgogliose di mostrare i loro pochi ma bei gioielli, così come sono contente di mostrare i loro bambini. Mi invitano a sedere su un minuscolo sgabello. Il bimbetto dell’uscio mi guarda e si mette a piangere, la madre lo chiama dolcemente senza alzare la voce e senza scomporsi, poi il bimbo intimorito ma altrettanto incuriosito, scivola nelle braccia della madre che con estrema naturalezza gli porge il seno rasserenandolo. Cerco un dialogo, ma non è possibile, vorrei capirne l’età ma niente, traccio dei segni sulla terra, mi guardano stupite, tiro fuori il mio passaporto e mostro la foto e i miei dati, sono curiose, si passano il passaporto di mano in mano, ma niente. Più tardi con l’aiuto della nostra guida, Noy, scopro che la signora del bimbo ha 32 anni. Da quel momento rinuncio a dare un’età alle persone, Noy stesso che dice di avere 36 anni ne dimostra almeno dieci di meno. La camminata continua fino al villaggio di Ban Sobkan, poco prima incontriamo la scuola, una bella struttura in muratura fatta ad U, con tutte le aule affacciate su di un patio ed un grande prato verde. E’ molto curioso il sistema adottato per cancello del cortile, sistema peraltro che incontreremo anche in altre occasioni. Il cortile è delimitato da una staccionata in bambù, per accedervi si deve scavalcare una specie di scaletta, per niente agevole, posta a cavaliera sopra la staccionata. L’unica spiegazione che mi son data è che questo sistema impedisce agli animali, che vagano liberamente, di entrare dove non sono desiderati, ma un cancelletto sarebbe stato di certo più agevole.
L’incontro della scuola è emozionante, ci affacciamo alle finestre di queste due classi e vediamo bambini attentissimi seguire quanto due insegnanti tutte d’un pezzo stanno scandendo a voce chiara e perentoria chissà quali informazioni. Sbircio i libri ed i quaderni, i formati sono piccoli. Le figure dei libri sono disegnate e sono in bianco e nero non hanno fotografie. La nostra presenza non fa scomporre i bambini e nemmeno le insegnanti. Dopo un pò una delle due, lasciando liberi i ragazzini, viene a conoscerci. E’ contenta ci dice che ha due figlie grandicelle che studiano in città, le presentiamo Germana anche lei teacher in Italy. Gran sorrisi, gran strette di mano.
Proseguiamo per l’abitato, arriviamo ad un crocicchio di strade e compaiono delle seggioline sulle quali siamo invitati a sedere, Noy dice che lì pernotteremo. Ci dividiamo in due case, Giampiero, Patrizia, Silvano e Livio in una. Io, e le altre tre amiche nella casa del sindaco. Ci accompagnano in questa casa palafitta dove al piano terra oltre che al fuoco, il gatto nella cenere, e tutto il resto, funziona anche da store, ci fanno accomodare dietro il banco e li ci mollano. Non sappiamo che fare, non sappiamo se è li che dobbiamo stendere i nostri giacigli, c’è un televisore coperto da un centrino. Una signora più anziana, continua imperterrita il suo affaccendarsi con pentole e stichi rice pressato in cestelli di vimini. BHO! È divertente, osservo i prodotti del banco di vendita. Quaderni, dentifrici, sigarette sciolte. Poi capiamo che ci avevano accolto nella parte buona della loro casa ma che avremmo dormito al piano di sopra. Bene, decidiamo di raggiungere gli altri alla casa dove anche avremmo cenato. E’ presto però, troviamo Silvano e Livio che stanno gustando una birra con delle noccioline che provvidenzialmente Livio ha portato con sé. Ci aggreghiamo. Il pernottamento nella casa palafitta del sindaco, nonché negozio del paese, si presenta pieno di incognite, saliamo la ripida scala che divide la zona tutto dalla zona notte. Al piano di sopra, accatastati al centro dello stanzone ci sono dei pagliericci, una parte del locale è diviso da una tenda nella quale scopriamo alla sera dormiranno Noy, il sindaco e non so bene chi altri. Cerchiamo di sistemarci per la notte, prendiamo i simil-materassi dal colore e dall’odore indefinito e cerchiamo di distribuirli sul pavimento. Arriva la vecchia, pare incazzata, ritira i materassi e li rimette nel mucchio, la guardiamo, vorremo aiutarla ma siamo intimorite e soprattutto non sappiamo assolutamente cosa dobbiamo fare. La donna trascina altri pagliericci e li mette a due a due affiancati sotto delle zanzariere, ne risultano tre zone notte divise da stracci e bandiere. Condivido lo spazio con Rossana, stendo il sacco lenzuolo, le due trapunte/materasso sono poste vicine vicine sul pavimento di legno, un po’ più in là c’è l’alcova di Giovanna e Germana. Tra gli stracci che delimitano il nostro spazio notte c’è anche una bandiera rossa con falce e martello, sopra la zanzariera delle altre due campeggia una foto dei padri: Marx e Lenin. La notte si presenta difficoltosa, così come si presenta impegnativa la funzione di lavarsi. Le case hanno un bagno fuori, dove non c’è acqua corrente. Tutto il villaggio utilizza l’acqua di fontane pubbliche, che servono per tutti gli usi dal lavare i panni alle persone o le pentole. Io guardo un po’ come fanno i locali ed aspetto le prime ombre della sera per approfittare di un po’ di buio per compiere questa funzione che normalmente faccio in privato ma che qui sono costretta a compiere pubblicamente. Infilo un pareo e furtivamente con un po’ di sapone mi risciacquo dal sudore della giornata. La vera impresa è riservata alle mie compagne le quali decidono di lavarsi dopo cena, ebbene, la fontana è posizionata proprio davanti alla casa che ci ospita e finché non decidiamo di andare a dormire, l’intera famiglia, spenta la televisione, si piazza fuori ad osservare quello che noi facciamo. Di tanto in tanto ci invitano ad andare a dormire. Ma sono solo le nove di sera! In qualche modo ognuna si arrangia. Quando saliamo siamo prese dallo sconforto, c’è una luce fioca che viene presto spenta, non si può leggere, il pagliericcio è duro. I rumori, gli odori, la polvere, il fumo della sottostante “cucina” attraversano le fessure delle pareti in legno, nella parte delimitata da tende per la famiglia, Noy parla nel sonno. Altri russano. I galli del quartiere hanno orologi biologici impossibili, si sente il latrare di cani.
Ha da passà la nottata!
La prendiamo in ridere, non c’è alternativa, siamo osservate dalla famiglia e dai padri del socialismo, non abbiamo scelta.
Al mattino, mentre felice di alzarmi inizio a ripiegare le mie carabattole mi sovviene alla memoria una delle canzoni più gettonate cantate a mia madre, “Se vuoi goder la vita, vieni quaggiù in campagna. Svegliati con il gallo, specchiati nel ruscello….”. Facciamo colazione con riso, zucca in brodo e lao the. Riprendiamo la via del fiume, con una barca raggiungiamo Ban Sopeham, da qui iniziamo un’altra escursione, non prima di aver attraversato la via centrale del villaggio nel quale vendono sciarpette colorate tutte ordinatamente esposte su lunghi pali di bambù sotto ciascuna casa. Spendiamo in nostri primi Kip. Si sente odore di fritto, in fondo alla via alcune donne sono intente a friggere una sorta di frittelle di zucca molto saporite, me ne offrono una bollente e bella carica di unto. Attraversiamo il cortile di un’altra scuola, i bambini stanno facendo ricreazione, alcuni giocano a bocce, mi soffermo a guardarli, uno di essi mi mette in mano una boccia e mi invita a giocare con loro.
Risaliamo un torrente, osservo che di tanto in tanto, dove l’acqua compie dei piccoli salti ci sono degli ingegnosi quanto arcaici sistemi per ottenere energia elettrica, da li partono dei fili, mi dicono che in quel modo riescono a produrre il fabbisogno energetico per la scuola. Sentiamo in lontananza un boato, Noy ci spiega che si tratta di bombe inesplose fatte brillare. Camminiamo fino ad una cascatella, sono l’unica ad indossare comodi sandali. Inizialmente tutti stanno attenti a non bagnare le scarpe, spesso mi pongo tra un masso e l’altro per dare una mano ad oltrepassare il guado. Germana, alla quale avevo in precedenza raccontato delle mie ricerche su san Cristoforo, patrono dei pellegrini, mi fa notare come il mio stare nell’acqua per aiutare i compagni a raggiungere la riva opposta, fosse esattamente una trasposizione del Cristoforo traghettatore. Buffa coincidenza.
Attraversiamo un altro villaggio, Ban Hat Saphei, le persone sono tranquille, stanno fuori dalle case a chiacchierare o impegnate in piccoli lavori. Incontro un uomo che davanti all’uscio di casa sta costruendo un cesto bicolore. Mi accuccio con lui, tenta di insegnarmi a fare l’intreccio del cesto.
Noto con piacere che sono molti i padri che tengono in braccio i loro bambini. Non è ancora stagione del lavoro nelle risaie e probabilmente la gente del paese sta li a tirar sera senza grandi impegni. Un pò come il far filò nelle sere d’inverno nelle nostre campagne, quando il lavoro dei campi era fermo.
Proseguiamo per Muang Ngoi, qui abbiamo ancora una grotta da visitare. Solo in tre abbiamo sufficiente energia per arrivarci. La sera dopo una cena consumata in una casa privata ci fermiamo sul terrazzo dell’alberghetto a chiacchierare tutti insieme, poi quando qualcuno decide di ritirarsi, con le donne ci spostiamo di sotto a continuare le nostre confidenze su di un meraviglioso balcone sporto sul fiume.
C’è la luna piena, illumina tutto con grandi ombre. Il fiume è placido, le barche ormeggiate si lasciano accarezzare dalla luce notturna e dall’acqua scura. Avrei voglia di fare sesso, me la tengo in silenzio.
All’indomani prendiamo una barca che ci porterà verso la città delle tante pagode, Luang Prabang. Solchiamo il fiume, la nebbia avvolge le cime e fa freschino. Combattiamo una lotta impari con gli spruzzi d’acqua che ci inondano improvvisi. Ci fermiamo una buona mezzora perché stanno facendo brillare una mina, dicono, penso una bomba, sulla montagna un po’ più avanti. Il boato che segue scuote l’acqua scura e le nostre interiora, si forma una nuvoletta di polvere e riconosco anche il sapore acre che qualche giorno prima le mie narici non avevano decodificato. Si tratta di zolfo, di materiale esplosivo, l’aria è bella pregna di questo misto di polvere, di roccia sbriciolata, di piante violentate e di polvere pirica.
Riprendiamo la navigazione, ci fermiamo su una chiatta galleggiante a pranzo e proseguiamo poi sulla riva opposta per vedere una bella grotta dove ci sono i mille Budda. Non colgo nessun tipo di spiritualità, ma la conformazione naturale di scavo della roccia è suggestiva. L’arrivo alla città ci spiazza, il barcaiolo ci invita a scendere verso una scalinata non bene in arnese immersa nel verde. Sarà mai questa la cittadina? Ci aspettavamo di vedere una scalinata trionfale, di vedere guglie e pagode. Dal fiume non si vede nulla, ma Luang Prabang è proprio quella.
Luang Prabang
Bisogna entrare nelle vie, farsi catturare dal profumo di frangipane, lasciarsi andare senza fretta e senza ansia in questo angolo di mondo tranquillo, pulito, piacevole e generoso. Nei due giorni che seguono vediamo le pagode, i templi, la processione del mattino dei monaci che scalzi ed ordinatamente si mettono in fila per ricevere doni e riso. Visito il palazzo reale ed un piccolo ma straordinario museo etnografico, con una bici vado oltre il fiume, mi infilo in un mercato locale. Chiedo ad una signora appollaiata sopra il banco delle verdure se posso lasciare la bici. Mi sorride e fa capire che non c’è alcun problema. Entro in questo mercato coperto, vendono verdure e carni. Guardo cosa offrono i banchi, non ho nulla da comprare, ma è troppo tutto particolare per non curiosare. Un cane odora il mio odore di straniera e mi ringhia senza tanti complimenti, tutti i presenti che fino a quel momento sembravano indifferenti alla mia presenza, si fanno in quattro per recuperare il cane e metterlo a cuccia. Continuo il mio curiosare, passo davanti ad un banco dove stanno anche cucinando. Sicuramente nella pentola cuociono cipolle e altre spezie, esala un fumo forte e piccante. Tossisco, i locali ridono divertiti ed io con loro. Nel pomeriggio con alcuni del gruppo andiamo dall’altra parte del fiume. Ancora pagode, cominciamo ad averne viste davvero tante, facciamo una camminata e ritroviamo il piacere appena lasciato della vegetazione spontanea e dei villaggi. Rigogliose bouganville incorniciano le rare costruzioni, c’è pace, c’è silenzio.
C’è tempo e spazio per riconoscerci nell’intimo.
All’indomani lasceremo questa incantevole cittadina. Trascorro le ultime ore in una piacevole terrazza sul Mekong a bere succhi di frutta, sola nell’aurea magica del tramonto.
Ultima tappa laotiana
Ci svegliamo ben prima dell’alba e solo verso sera raggiungiamo Vientiane, la capitale. Ceniamo in un locale proprio davanti all’hotel, mangiamo bene, il ragazzo è simpatico. Vogliamo spendere gli ultimi Kip che abbiamo in tasca. Con Silvano iniziamo un gioco di conta dei soldi rimasti per vedere cosa riusciamo ancora a bere. Spendiamo gli ultimi spicci in alcool. Goduti andiamo a letto. Stiamo per lasciare il Laos, siamo contenti del viaggio ma intimamente siamo rattristati di dover partire. Esco ancora una volta sul balcone per salutare questo ospitale paese. La sera è mite, alla mia sinistra vedo il fiume che fa da confine con la Tailandia così vicina ma così diversa, in alto sopra il tetto dell’hotel, sventola bella piena la bandiera rossa.