8 Luglio 2025
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Se avessi potuto chiudere gli occhi ed essere teletrasportata a Bozzhira, nel centro del Mangystau, riaprendoli avrei pensato di essere soggiogata da un incantesimo e di trovarmi sul fondo di un oceano prosciugato. La terra si estende per chilometri e chilometri, perfettamente piatta perdendosi all’orizzonte nei suoi colori cangianti; nel mezzo pinnacoli, montagne dalla testa mozzata, spuntoni di pietra sospesi sull’abisso, colate di calcare a formare misteriosi canaloni.

Del resto, milioni di anni fa, il Mangystau era sommerso dall’oceano Tetide, l’antico oceano preistorico “imprigionato” dalla frammentazione del supercontinente Gondwana e dalla relativa deriva dei continenti che ne sono scaturiti (Africa, India e Australia) con movimenti tettonici che si “scontarono” con Laurasia, l’altro supercontinente che delimitava il Tetide a nord. Tutto questo avveniva durante il Mesozoico (250-65 milioni di anni fa) eppure quando sei lì è come se si aprisse una finestra nel tempo e tu venissi catapultato in quell’era di mari antichi in cui i continenti si separavano come zattere alla deriva.

È da tempo che pensiamo di fare questo viaggio e finalmente il 3 aprile partiamo. Oltre a me e Giampiero fanno parte del gruppo Andrea, Francesca e Stefania; partiamo tutti da Milano, tranne Francesca che ci raggiungerà a Istanbul da Roma.

Dato che a Istanbul abbiamo uno scalo di parecchie ore decidiamo di fare un giro in città prenotando un pullmino che ci porta in piazza Sultanahmed e ci riporterà poi in aeroporto in serata. La giornata è calda e serena per cui facciamo una bella passeggiata nel quartiere più famoso di Istanbul. Infine, dopo poco più di tre ore di volo, arriviamo ad Aktau sotto un cielo cupo e piovoso.

Dalla valle dei castelli e alle gigantesche palle di roccia

All’aeroporto facciamo conoscenza con Eduard e Natalia, i nostri autisti-guide-cuochi. Che sono persone piacevoli e simpatiche lo capiamo subito che sono molto bravi ed efficienti lo scopriremo presto. Oltre a proporci una cucina molto buono e varigata, hanno mostrato un’ottima gestione dei tempi e una guida capace anche nei tratti più impervi.

Dopo avere caricato i bagagli e definito gli equipaggi delle due auto, Eduard ci avverte che, vista la giornata piovosa, il programma di oggi verrà invertito con quello di domani. Facciamo una sosta per la colazione e partiamo sotto una pioggerella poco invitante.

Di seguito il percorso dell’intero viaggio con le varie tappe.

Nelle circa 2 ore che seguono, complice anche un paesaggio abbastanza monotono reso ancor meno allettante dalla pioggia battente, cadiamo più o meno tutti in un sonno letargico dato che siamo “in pista” da più di 24 ore.

Vengo svegliata da Natalia al primo punto di osservazione sulla montagna Akmyshtau. È un massiccio lungo 1121 metri e largo, nella parte centrale, 948 metri; come tutte le montagne del Mangystau non raggiunge un’altitudine elevata arrivando, nella sua punta più elevata, a 312,7 metri sul livello del mare. Le sue scoscese pareti rocciose si snodano in varie direzioni e sono composte da rocce del Cretaceo superiore, argille, arenarie, marne e calcari.

Ci dirigiamo quindi verso la rupe Airakty, una catena di montagne residuali (ossia sopravvissute all’erosione di una più grande formazione geologica) caratterizzata da formazioni rocciose che ricordano castelli con torri e bastioni. Proprio per queste sue caratteristiche, il poeta e artista ucraino Taras Shevchenko la definì Valle dei castelli.

Ancora pochi minuti di scossoni sulla jeep e arriviamo nell’area di Shomanay che ospita diversi monoliti rocciosi: la prima sosta è in una specie di anfiteatro dove alte colonne di arenaria, simili a giganteschi cannoli, incombono sulle nostre teste, rese ancor più cupe e inquietanti dal cielo grigio. Una breve passeggiata ci porta poi ai piedi di un’altra roccia che risaliamo abbastanza rapidamente per trovarci su una sorta di terrazza naturale dalla quale dominiamo la vallata con le sue “sculture” modellate dal vento e la steppa immensa che le circonda. La pioggia è cessata e nonostante il cielo plumbeo la vista è maestosa.

Riprendiamo il nostro viaggio passando vicino alla montagna Sherkala, una gigantesca yurta che si impone testarda sulla landa desolata che la circonda: si tratta infatti di una massa rocciosa isolata, unica superstite di rocce più instabili scomparse nel corso di milioni di anni a causa dell’esposizione all’acqua e al vento.

Si avvicina l’ora del pranzo che consumiamo nella valle di Kokala. Il tempo è ancora instabile quindi facciamo uno spuntino veloce (niente a che vedere con i sontuosi pic nic dei giorni seguenti). Luogo magico, la valle di Kokala è un tripudio di colonne, rilievi, funghi, piramidi e canyon dalle pareti frastagliate e multicolore dove si possono trovare frammenti di carbone, vecchi di 170-200 milioni di anni.

Intanto un timido sole sbuca tra le nubi e quando arriviamo alla montagna Zhalgan, dall’altro lato della valle, possiamo goderci il piccolo trek con una luce completamente diversa. Qui i colori dominanti sono il bianco della formazione rocciosa sul quale si scioglie un terriccio rossastro. In alcuni punti la salita mi mette in difficoltà (non sono certo famosa per la mia agilità), ma con l’aiuto di Eduard supero rapidamente i piccoli ostacoli.

In cima alla montagna Zhalgan

È un sole convinto e radioso quello che ci accoglie nella valle di Torysh dove si apre uno dei più incredibili paesaggi che io abbia mia visto: centinaia di palle di roccia, alcune enormi, giacciono nella valle come se decine di giocatori di bocce impazziti avessero svuotato le proprie sacche lanciandole per aria e lasciando ricadere le palle ovunque.

Circa 180-120 milioni di anni fa, la valle era sommersa da un mare poco profondo. Qui si accumulavano strati di sabbie marine, limo e argille, organismi marini morti (conchiglie, coralli, plancton); all’interno di questi sedimenti, lentamente si formavano le concrezioni, grazie alla precipitazione di minerali come carbonato di calcio o silice, attorno a un nucleo (una conchiglia, ad esempio). Con il tempo, i movimenti delle placche terrestri hanno causato il sollevamento del fondale marino trasformando l’antico mare in terraferma; le concrezioni, inizialmente sepolte in profondità nei sedimenti marini, cominciavano così a trovarsi sempre più vicine alla superficie. Nei milioni di anni successivi, vento, pioggia e sbalzi termici hanno eroso lentamente le rocce circostanti, più friabili delle concrezioni; questo ha lasciato le sfere esposte in superficie, sparse in mezzo a un paesaggio sempre più secco. Le concrezioni, essendo molto più resistenti, sono sopravvissute e ora emergono dal terreno, come se fossero comparse all’improvviso. Fenomeni come quelli della valle di Torysh sono piuttosto rari, se ne trovano in Nuova Zelanda o in Sud Dakota o Canada, ma non su vasta scala come qui.

Una delle gigantesche “palle” nella valle di Torysh

Concludiamo la giornata nel canyon Kapamsay dove installiamo il primo campo. Tra le sue alte pareti di gesso scorreva un fiume stretto ma profondo e noi piantiamo le nostre tende nel suo letto prosciugato. Mentre ci rilassiamo, chi leggendo, chi scrivendo, chi esplorando i dintorni, Eduard e Natalia cucinano un’ottima pasta al pesto.

Subito dopo cena la stanchezza ci agguanta e crolliamo nei nostri sacchi a pelo. Io cerco di leggere, ma alle nove e mezza sono già sprofondata nel mondo dei sogni.

Un tuffo nella spiritualità: moschee sotterranee e necropoli

Oggi giornata dedicata alle moschee, ai mausolei e alle necropoli. Ma prima di leggere la descrizione dei luoghi visitati, consiglio di dedicare qualche minuto alla lettura dell’articolo La spiritualità nel Mangystau per capire meglio quello che si andrà a vedere.

Dopo un’abbondante colazione e con una bella giornata di sole pieno, la prima sosta è alla moschea di Shakpak Ata. Il periodo di costruzione si colloca approssimativamente nell’alto Medioevo, durante il regno dell’Orda d’Oro del Khan Uzbek (1312-1342). Scavata nella roccia, Shakpak Ata è l’unica moschea nella regione Aral-Caspio, sulle cui pareti sono presenti iscrizioni e disegni; le iscrizioni sono in arabo, turco-chagatai e persiano e suggeriscono che la moschea fosse un luogo sacro e una dimora sufi. La moschea ha quattro stanze raggruppate trasversalmente attorno a quella centrale, i cui angoli sono decorati con semicolonne, con un tetto a cupola al centro del quale è stato tagliato un lucernario. L’asse lungo è orientato lungo la linea est-ovest e alle estremità di questo asse sono disposte le aperture delle porte. All’esterno, sopra l’arco, è stato costruito un padiglione quadrato che proteggeva dalla pioggia e serviva una torre e un minareto.

A ovest della moschea c’è l’omonima necropoli medievale, dove, nella parte meridionale, si trova l’area turkmena e, nella parte settentrionale, quella kazaka. In entrambe le parti della necropoli si trovano lapidi antiche e più recenti, ma i monumenti più interessanti sono quelli dell’area kazaka che vanno dal XVIII fino agli inizi del XX secolo ( koytass, kulpytass, forzieri tombali e saganatam).

La moschea si trova nel canyon Shakpakatasay, luogo sacro di per sé (vedi articolo sulla spiritualità). È il più grande dei numerosi canyon creati dalla potente risacca oceanica che spazzò via il morbido bordo dell’altopiano calcareo che emergeva dalle profondità, creando queste gole. Dopo avere visitato la moschea, in una mezz’ora di sterrato raggiungiamo i bordi del canyon dai quali l’occhio spazia su questa vasta gola popolata da spettacolari formazioni rocciose zoomorfe le cui particolari sembianze hanno probabilmente alimentato le teorie sui poteri misteriosi del luogo (voci, apparizioni spettrali e la percezione di presenze non visibili). Sarebbe stato interessante fare il campo qui (cosa che sarebbe probabilmente successa se non avessimo dovuto cambiare il giro), sicuramente avremmo trascorso la notte con qualche brivido. Durante le esplorazioni archeologiche, sui lati del canyon sono stati scoperti laboratori e insediamenti dell’età della pietra, cimiteri e tombe di primi nomadi e due fortezze-rifugi di epoca medievale.

La prossima tappa è la necropoli di Kenty Baba dove si trovano due mausolei del XV-XX secolo. Il primo ha una forma trapezoidale, originale per questo tipo di edifici, e ha un ornamento in alto, realizzato successivamente alla sua costruzione; sui muri del secondo sono raffigurati cavalli, cammelli, motivi vegetali e il triangolo, uno dei simboli protettivi. Di fronte al primo c’è la cosiddetta Moschea della steppa: le pietre sono poste in un cerchio protettivo all’interno del quale, secondo le credenze locali, il viaggiatore si sentirà al sicuro in qualsiasi momento dell’anno, notte e giorno essendo sotto la protezione del santo.

Ci dirigiamo quindi verso uno degli edifici più sacri della zona, la moschea di Sultan Epe, tagliata nella roccia calcarea e composta di ben 9 stanze. La stanza d’ingresso termina con una scala molto ripida, fatta di lastre di pietra grezza di diverse dimensioni, che scende in una piccola sala con un tetto alto e un lucernario. All’interno della stanza, rettangolare con pareti alte fino a 3 metri, c’è un’alta scala, mentre sulla parete nord c’è un’apertura luminosa che conduce a una stanza stretta. C’è anche una fonte di acqua dalla quale anche noi facciamo rifornimento.

La moschea si trova nell’omonimo canyon e ci fermiamo poco lontano per il pranzo. Non proprio un semplice panino: le jeep sono dotate di tendalini per cui Natalia ed Eduard sistemano rapidamente tavoli e sedie e ci mangiamo una bella zuppa, seguita da formaggi e salumi vari.

Dopo la sosta ristoratrice risaliamo in macchina per un tragitto di un’ora e mezza circa che ci porta ai margini della depressione di Zhygylgan dove hai la prova evidente e tangibile della forza dirompente della natura, non per niente la traduzione del kazako Zhigylgan è “terra caduta”. La depressione si è originata a seguito di un massiccio crollo tettonico avvenuto in tempi geologicamente recenti (durante l’Olocene o alla fine del Pleistocene, quindi nell’arco degli ultimi 10.000–100.000 anni). Un’enorme lastra di calcare, spessa tra i 30 e i 35 metri e parte del plateau di Tupkaragan, è collassata su uno strato sottostante di argilla e sabbia, probabilmente indebolito da infiltrazioni d’acqua o da movimenti sismici. Questo evento ha causato il distacco e la frattura della lastra, generando un paesaggio caotico di blocchi rocciosi, torri e fenditure. ​ All’interno della depressione sono stati rinvenuti fossili e impronte di animali preistorici, cavalli e tigri dai denti a sciabola, che testimoniano la ricca biodiversità del passato: durante la passeggiata tra le rocce, Eduard ci fa notare le impronte di un felino su una parete perfettamente verticale (giunta in quella posizione a seguito del crollo). Infine, si incontra un piccolo lago salato.

Impronta di un felino nella depressione di Zhygylgan

Dopo un’altra oretta di jeep arriviamo all’ultima necropoli della giornata: Kanga Baba. Ci fermiamo al mausoleo Karakosa (XIII-XV secolo) da dove si ha una vista dall’alto della necropoli, ma decidiamo di non scendere visto che nessuno di noi è appassionato di monumenti funebri turkmeni, kazaki o kirghisi. La vista della vallata è comunque suggestiva anche se non c’è traccia degli 800 alberi di gelso che dovrebbero ricoprire l’area circostante descritti in alcune guide.

Risaliamo sulle jeep e scendiamo verso Saura, una località balneare sul Caspio. Questa notte non dormiremo nelle tende, ma in una bella yurta con comodissimi materassi. Il posto è curioso: un accampamento di yurte destinate ai turisti, con bagni e sauna e, al di fuori del recinto, una spiaggia “attrezzata” con sdraio e ombrelloni. Il Caspio non è però particolarmente invitante e del resto è un po’ freddino per pensare a un bagno, comunque è piacevole starsene sdraiati al tramonto mentre Natalia ed Eduard pensano alla nostra cena.

La magia di Sor Tuzbair, la salina del Mangystau

Partiamo verso le 9:30 e iniziamo a muoverci verso est. Ci aspettano circa 200 chilometri tra sterrato e strada asfaltata attraversando un paesaggio non particolarmente attraente: una landa desolata a perdita d’occhio interrotta solo da qualche sparuto cammello e numerose trivelle per l’estrazione del petrolio. Ci fermiamo a Shetpe per il pranzo in una specie di autogrill dove sarebbe possibile farsi una doccia, ma non ne approfittiamo dato che è abbastanza complicato, soprattutto per le donne (in fin dei conti siamo in giro da soli 2 giorni e non è particolarmente caldo).

Verso le 14:30, mentre stiamo sonnecchiando e il panorama intorno non mostra significativi cambiamenti, Natalia ci dice di chiudere gli occhi. Quando li riapriamo siamo sull’orlo di un abisso bianco accecante: è Sor Tuzbair. Ammutolita, le sole parole che mulinano nella mia mente sono quelle della famosa poesia di Ungaretti: “M’illumino d’immenso”.

Sor Tuzbair è un’immensa salina (“sor” in kazako significa proprio “salina prosciugata” o “depressione salina”) di circa 60 chilometri quadrati, situata sul margine sud-occidentale dell’altopiano di Ustyurt, in una zona di transizione tra l’altopiano e la depressione del Mar Caspio. In pratica, è un punto dove l’altopiano si interrompe bruscamente e digrada verso il basso, formando una serie di scarpate bianche di gesso che circondano la salina.

Sia l’altopiano di Ustyurt sia il Sor Tuzbair si sono formati a causa di movimenti tettonici della crosta terrestre, che hanno generato un’alternanza di elevazioni (come l’altopiano) e depressioni (come il Tuzbair). L’altopiano di Ustyurt è formato principalmente da calcari e gessi depositatisi durante il periodo Cretaceo e Terziario; anche il Sor Tuzbair mostra strati di gesso e sale, il che suggerisce che entrambi abbiano condiviso processi sedimentari simili, anche se poi il sor è diventato una zona di raccolta e di evaporazione. Nel tempo, l’erosione ha modellato i bordi dell’Ustyurt, creando scarpate e formazioni rocciose spettacolari sopra e attorno al Sor Tuzbair. I materiali erosi vengono trasportati in basso verso la salina, contribuendo alla sua sedimentazione secondaria.

La spiegazione scientifica rende solo lontanamente l’idea della magia che questo luogo sprigiona, soprattutto quando si scende dall’altopiano e ci si getta nelle avvolgenti braccia delle sue scarpate di panna montata. Prima di scendere però non possiamo esimerci da una passeggiata sull’orlo dell’abisso e raggiungere un’altura, chiamata Kyzylbas, dove incontriamo una sorta di sfinge naturale che osserva l’immensità dell’orizzonte.

Compiuto un lungo giro che dura circa un’ora, arriviamo ai piedi della cascata di argilla e calcare che poco prima vedevamo dall’alto e qui piantiamo il nostro campo. È metà pomeriggio e quindi, espletate le incombenze pratiche, possiamo girovagare nella zona. Le condizioni atmosferiche sono dalla nostra parte perché il sole splendente e il cielo terso di un azzurro estivo si alternano a cupe nubi che rotolano sopra di noi gravide di pioggia, fortunatamente senza scaricarsi, ma creando un’alternanza di luci e ombre che ammalia.

Concludiamo la giornata con la solita ottima cena.

Solitaria passeggiata a Sor Tobazair

Le nostre tendine a Sor Tobazair

Alzate il sipario: è in scena Bozzhira

La mattina i preparativi per la partenza sono inspiegabilmente lenti, abbiamo così il tempo per un’altra bella passeggiata arrampicandoci in uno dei canaloni, solo apparentemente invalicabili, ma che si rivelano invece facili da risalire. Con le jeep ci spostiamo poi in un’altra zona, poco distante, della salina dove possiamo ammirare una grande quantità di fossili, si tratta infatti di un’area particolarmente ricca di resti di ricci marini, conchiglie e altro.

Infine, verso le 11:30 partiamo per raggiungere, dopo circa un’ora un’altra scogliera che domina una profonda depressione. Eduard ci fa vedere, sotto di noi, al termine di un’infinita scalinata di 1.300 gradini, la moschea di Beket Ata; ci spiega che tra andata e ritorno ci vogliono circa 3 ore e che, quindi, la vedremo solo dall’alto. La moschea è irraggiungibile in altro modo, se non con un elicottero, e quindi a me va benissimo ammirarla così, peraltro è la sua posizione a renderla particolare, così incastonata nella roccia, e dall’alto si vede benissimo.

Ripartiamo e ci prepariamo per uno dei momenti clou del viaggio: la valle di Bozzhira, dominata dalle alte scogliere calcaree dell’altopiano di Usuyurt.

Acqua, vento e forze geologiche hanno modellato nel corso dei millenni il fondale dell’antico oceano Tetide dando vita a questo paesaggio lunare. La valle si estende su oltre 3.000 chilometri quadrati, ma i punti panoramici e le formazioni più peculiari sono concentrati in 40, ed è un parco naturale protetto.

Il primo punto panoramico nel quale ci fermiamo, sull’orlo dell’altopiano, offre una panoramica dell’intera area: dalla Cresta del Drago, alle Zanne, alle colline coniche e piatte che i kazaki chiamano talvolta Üstirt üstirttari, per spaziare poi fino all’infinito orizzonte.

Il secondo punto panoramico si trova a 6 chilometri a sud e si affaccia sulla roccia calcarea chiamata Cresta del Drago. È un luogo iconico, con una lama di pietra che si lancia nel vuoto, sulla quale i temerari si avventurano per una foto da brivido. È proprio nei pressi di questo punto che piantiamo il nostro campo: sebbene ventosa, la serata è splendida e ci godiamo l’aperitivo guardando questo paesaggio surreale, plasmato da forze antiche.

I magnifici scenari di Bozzhira

Si scende sul fondale dell’oceano

Uscire la mattina dalla tenda è quasi un’esperienza mistica con il sole che illumina la vallata sotto di noi. Dopo la solita passeggiata, mentre Eduard e Natalia smontano il campo, partiamo per la discesa verso la valle; discesa nella quale sperimentiamo tutta la perizia dei nostri autisti.

Arrivati alla base, iniziamo il nostro giro in questo museo all’aperto. Per prima cosa passiamo nei pressi della montagna Shoky Tau, senza fermarci. Arrivando da nord, la montagna si presenta come un perfetto cono, ma è famosa per la sua forma mutevole perché, osservandola da est, è un ovale, per nulla conico.

Scorrazziamo poi nella valle raggiungendo una delle montagne dalla testa mozzata dove, con un piccolo sforzo raggiungiamo la cima per godere di un punto di vista diverso sulla valle.

Nel tardo pomeriggio raggiungiamo il Boszhyry Canyon, un canalone tra alte pareti di argilla dalle quali spuntano inquietanti denti di roccia che l’erosione fa, di tanto in tanto, crollare sul fondo del canyon. Al termine del canyon, con le piogge, si forma una piccola pozza d’acqua (ora asciutta) dove, ci spiega Natalia, gli animali vengono ad abbeverarsi.

Raggiungiamo infine il punto dove impiantare il campo. È una piccola altura di fronte al terzo punto panoramico: le Zanne.

Si tratta di due sporgenze rocciose alte e aguzze che si ergono verso il cielo, somigliando appunto a delle zanne, e che sono il risultato di millenni di erosione. Composte di sabbia bianca e calcare, al tramonto sono particolarmente suggestive assumendo un colore rosato. Risalendo la sella tra le due zanne e guardando i microbici compagni di viaggio tocchi con mano la grandiosità che ti circonda.

Aperitivo ai piedi delle Zanne

Bel trek tra le Zanne

Anche questa mattina il risveglio è maestoso. Colazione e via per una bella passeggiata verso le Zanne. Attraversiamo un vasto prato dove placidi cammelli pascolano lontani, in realtà tanto placidi non sono: il capobranco ci guarda, poi si muove lentamente verso di noi; quando inizia a trotterellare lo osserviamo con curiosità poi, all’aumentare dell’andatura, ci rendiamo conto che le sue intenzioni non sono proprio pacifiche. Prende di mira Andrea, poi Stefania, intenta a osservare un fiore, ma fortunatamente le urla lo bloccano dandoci il tempo di allontanarci velocemente.

La primavera nella valle di Bozzhira

Proseguiamo la nostra passeggiata fiancheggiando queste spettacolari formazioni e ci perdiamo a osservare la flora. Anche in questo terreno arido e roccioso, la primavera mostra i suoi gioielli: il più curioso è la cistanche salsa, un piccolo fiore la cui corolla è composta da petali che formano una struttura a tubo con la punta di colore violaceo; completamente in fiore sono splendidi anche i rari arbusti di tamerice e poi piante di artemisia, salsola, crespino, qualche acacia e piccoli cistus (fiorellini bianchi, rosa e azzurri).

Eccoci di nuovo sulle jeep per l’ultimo giro in questa incredibile valle. La prima tappa è in vista della montagna Bokty che troneggia sulle banconote da 1000 tenghe. Una vera e propria “torta”, questo il significato del nome in kazako, con una base di crema, strati di marmellata di ciliegie e la cima di cioccolato.

Dopo la sosta pranzo, eccoci diretti al famoso “tiramisù”, soprannome affibbiato alla montagna Kyzylkup dai turisti, e poi fatto proprio dalle guide, per via delle sue stratificazioni di colori chiari e scuri che ricordano l’aspetto del celebre dolce italiano. Particolarmente scenica una valle che si addentra tra le colline di mascarpone e caffè nella quale ci perdiamo in una bella passeggiata di un’ora. Nel tardo pomeriggio ci muoviamo verso un altro lato della conformazione rocciosa dove impiantiamo il nostro ultimo campo. È anche questo un paesaggio surreale e mi godo il tramonto mentre prendo appunti sul mio diario.

 

Un cistanche salsa con la corolla chiusa
La montagna Bokty, immortalata sulla banconota da 1000 tenghe
La montagna Kyzylkup, detta “tiramisù” dai turisti

Il panorama dalla montagna Kyzylkup

 

Il ritorno ad Aktau

La mattina ci godiamo ancora Kyzylkup risalendo le sue colline e perdendoci nel reticolo di piccole gole. Oggi faremo poco sterrato percorrendo principalmente una delle due strade asfaltate che tagliano il Mangystau da est a ovest. Dopo un paio d’ore di viaggio arriviamo alle dune Tuyesu che si trovano alla periferia dell’insediamento di Senek e si estendono da sud-est a nord-est per 30 chilometri, con una larghezza massima di 12 chilometri da nord a sud. Niente di che, ma facciamo comunque una piccola passeggiata.

Raggiungiamo poi un punto panoramico sulla depressione di Karagiye. L’origine è simile a quella della depressione Zhigylgan: le acque sotterranee si sono gradualmente infiltrate in profondità nella terra, dissolvendo le formazioni rocciose sottostanti; ciò ha portato allo sviluppo di vuoti sotterranei, grotte e caverne, che alla fine sono crollate sotto il peso degli strati sabbiosi sovrastanti formando la depressione che ora si trova a più di 130 metri sotto il livello del mare. La vista dall’alto non ci entusiasma particolarmente, probabilmente perché abbiamo gli occhi ancora pieni dei panorami della valle di Bozzhira.

Giampiero aveva chiesto di poter andare nella depressione di Karyn-Zharyk dove si trovano tre montagne dette “Tre fratelli” situate sopra la palude salina e che sono particolarmente sceniche, ma sarebbe stata necessaria una deviazione piuttosto lunga che avrebbe richiesto di comprimere la permanenza a Bozzhira. Inoltre, Eduard ci dice che in questo periodo non si può andare in quell’area perché è il periodo in cui le femmine dei mufloni partoriscono; durante il periodo delle nascite, le femmine, che partoriscono un solo cucciolo, tendono a isolarsi dal gruppo per partorire in tranquillità e sono particolarmente sensibili a disturbi esterni in questa fase delicata.

Prima di giungere ad Aktau attraversiamo uno dei tanti campi petroliferi di cui è ricco il Mangystau; solo in quest’area ci dicono esserci oltre 20.000 pozzi. Arriviamo ad Aktau con la stessa pioggia con la quale siamo stati accolti e salutiamo Eduard e Natalia.

Concludiamo questo bellissimo viaggio con un’ottima cena al ristorante georgiano di Aktau. L’indomani partenza per Istanbul, dove salutiamo i nostri compagni di viaggio che tornano in Italia mentre io e Giampiero ci fermiamo qualche giorno nella capitale turca.

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