30 Aprile 2024
Libia
Follow by Email
Twitter
Visit Us
YouTube
YouTube
LinkedIn
Share

Sono passati tanti anni da quando sono andata in Libia. Il mio è solo un diario di viaggio, che descrive una bellissima vacanza nella quale ho conosciuto alcuni libici con i quali ho riso, chiacchierato, trascorso giornate serene e dense di emozioni. Era la mia prima volta nel deserto ed ero totalmente affascinata. Oggi non posso rileggere questo diario senza chiedermi cosa ne è delle persone che ho conosciuto, cosa è successo loro, dei loro progetti, dei loro sogni, delle loro famiglie. Per qualche anno siamo rimasti in contatto, già da molto prima che il paese fosse sconvolto dalla guerra però non avevo più loro notizie, ma li immaginavo vivere la vita di allora: ad accompagnare i turisti, a guidare sulle dune, a risparmiare per i figli, per farli studiare. E ora?
20 aprile 2002 – 4 maggio 2002

Ore 5.00. Una dopo l’altra suonano le tre sveglie che ho puntato per essere sicura di non mancare l’appuntamento; in realtà non ne sarebbe stata necessaria neppure una. Il pensiero di questo viaggio mi accompagna da settimane, ho letto e riletto la guida, ho studiato la cartina, la mia mente si è spesso persa a immaginare colori, odori, emozioni.

E poi l’incognita della compagnia. È la prima volta che viaggio con Avventure nel Mondo. Ho trascorso la maggior parte delle mie vacanze con amici, saltuariamente da sola, ma questa volta è diverso: impossibile, o molto complicato, allontanarsi se con i compagni di viaggio non mi trovo a mio agio. Arrivo a Linate per prima e, dopo qualche minuto, vengo raggiunta da Claudio, Giancarlo (il capogruppo), Simona e Francesca. Documenti, check-in e partenza per Roma dove troviamo il resto del gruppo e i viveri. Quando vedo i 20 scatoloni targati Avventure non posso credere siano tutti nostri, fortunatamente c’è chi se ne occupa e io posso dedicarmi a far conoscenza con Laura (da Pisa), Mauro, Piera e Agnese (da Roma), Ilvo, Betti ed Emanuele (da Bologna), Alessandra (da Brescia).

I DUE VOLTI DI TRIPOLI

Finalmente ci si imbarca sul volo per la Libia e il viaggio ha inizio. L’arrivo a Tripoli è in perfetto orario. Sbrigate le pratiche di ingresso, e dopo una brevissima tappa all’albergo Bab el Djedid per scaricare i bagagli, ci dirigiamo alla Medina.
Con le nostre macchine fotografiche a tracolla, ci sparpagliamo negli stretti vicoli, tra le case diroccate, alla famelica ricerca di un’immagine da rubare e sembriamo formiche a caccia di cibo, ma la Medina è quasi deserta, i negozi chiusi. Non facciamo che rincontrarci incrociando sguardi delusi. Rimango indietro per scattare una foto e mi trovo sola, due bimbi cercano di scambiare qualche parola con me, ridono. Mi fermo, scherzo con loro, hanno voglia di giocare, come tutti i bambini del mondo. Loro si divertono guardando le mie smorfie, io mi rilasso facendole e piano piano la frenesia del turista diventa meno assillante; quando raggiungo gli altri mi sento più serena, forse perdo qualche bella inquadratura, ma incomincio ad assaporare questa aria di casa, la stessa che si sente in alcune stradine di Genova, nelle bettole del vecchio porto di Barcellona, nel mercato degli alimentari del Cairo, nella Piccola Venezia di Livorno. Aria di Mediterraneo.

Dalla Medina ai grattacieli del lungomare

Con quasi due milioni di abitanti, Tripoli è una città in bilico tra due mondi: quello antico della Medina, con le sue moschee e i suoi mercati ancora non contaminati da un turismo che tutto omologa e uniforma, e quello moderno, che si estende oltre i quartieri coloniali costruiti dagli italiani a ridosso della città vecchia e fatto di torri, grattacieli, svincoli, cavalcavia e strade trafficate.
Attraversata la Piazza Verde e varcato l’arco che conduce alla città vecchia, il fragore della modernità si perde nel vociare dei suq. Orafi e venditori di stoffe si susseguono ai battitori di rame fino ai droghieri, con le ceste colme di spezie dai profumi intensi. Tra le 38 moschee presenti nella Medina, quella di Gurgi è sicuramente la più bella: piastrelle, maioliche, marmi intarsiati e un alto minareto con doppio balcone. Passeggiando per i vicoli non è raro essere fermati da anziani che, riconoscendo la nostra lingua, scambiano volentieri qualche parola di italiano.

Per le strade della Medina di Tripoli
Tripoli
Sabratha
Un particolare del teatro di Sabratha
Un particolare del teatro di Sabratha
Sabratha
Sabratha
Nalut
Ghadames
Ghadames
on the road
Il nostro accampamento del wadi Tifaskin
Hammada Zegher
Al Matahar
Al Matahar
Hammada Zegher
vero erg Diwane
erg Diwane
erg Diwane
erg Diwane
erg Diwane
erg Diwane
erg Diwane
battaglia a colpi di hantal
Hammada el Homra
Hammada el Homra
Hammada el Homra
Hammada el Homra
Hammada el Homra
Hammada el Homra
L’arco di Fozzigiaren
Nell'Acacus
Nell'Acacus
Nell'Acacus
Nell'Acacus
Incisioni nel Mathendush
con el Hadi
 lago Gabraoun
 lago Gabraoun
Il gruppo
La ghirba per Mauro
Leptis Magna
Leptis Magna
Leptis Magna
Il teatro di Leptis Magna
Per le strade della Medina di Tripoli

DAGLI SPLENDORI ROMANI ALLA PERLA DEL DESERTO

Caricati zaini, borse e viveri sul pulmino che ci condurrà a Ghadames, l’indomani iniziamo la nostra discesa verso sud, ma la prima tappa è ancora sulla costa, alla città romana di Sabratha.

Sabratha: il fascino dei delfini

Arrivati al sito archeologico, la visita prosegue in piccoli gruppi che scelgono il proprio percorso, io mi dirigo subito verso il Teatro. Attraversato un passaggio laterale che immette direttamente sul palcoscenico, mi ritrovo, sola, ad ammirarne tutta la maestosità, affascinata in particolare dai due delfini che delimitano il proscenio. Ma tutta Sabratha non è che un susseguirsi di emozionanti incursioni nel suo glorioso passato: dal suggestivo Santuario di Iside ai grandiosi edifici dell’area occidentale con i Templi di Liber Pater, Antonino e Serapide, la Basilica di Giustiniano fino all’Anfiteatro, oltre la porta orientale della città, un po’ difficile da trovare, ma la cui visita merita la piccola fatica.

Alì, il misterioso

Quando facciamo ritorno al pulmino un misterioso personaggio si unisce al gruppo. Si siede taciturno e risponde in modo laconico e a volte enigmatico alle nostre domande. Solo il giorno dopo capiremo che si tratta di Alì, il poliziotto che ci accompagnerà per tutto il viaggio. Prima di lasciare la costa ci fermiamo ad acquistare acqua e verdura fresca, acquisti che si rivelano più laboriosi del previsto, ma finalmente riusciamo a partire. Le palme e la vegetazione costiera lasciano il posto a rade macchie di arbusti, il paesaggio è monotono e solo di tanto in tanto ravvivato da qualche piccolo villaggio.

Nalut, gioiello berbero

Nel primo pomeriggio arriviamo ai piedi del Jebel Nafusah, che risaliamo con pochi e ripidi tornanti, giungendo così a Nalut, gioiello berbero a picco sulla montagna. A Nalut si trova uno stupefacente granaio, un qasr vecchio di 3 secoli, con 300 cellette per la conservazione degli alimenti, sovrapposte fino a 6 piani e travi di legno piantate nell’argilla come scale.

Pizze, insalate, focacce: nell’unico ristorante aperto consumiamo un rapido pranzo e via… di nuovo sul pulmino per giungere, alle 21.30, nella leggendaria Ghadames, la perla del Sahara. Trascorsa la notte nell’albergo della città nuova, la mattina della nostra terza giornata libica visitiamo Ghadames.

Ghadames, la perla del deserto

Protetta dall’Unesco, la città vecchia è splendida, ma deserta.
Gli ultimi abitanti si sono trasferiti (o sono stati trasferiti), negli anni ’80, nelle moderne case della città nuova, ma i proprietari tornano il venerdì tra le antiche mura per trascorrere i giorni di festa nelle fresche abitazioni che si affacciano sugli stretti vicoli coperti.

Circondata da alte mura, la città vecchia veniva rifornita da un complesso sistema di canalizzazione che attingeva l’acqua da Ain el Fas, la fonte della giumenta, origine anche della leggenda che spiega la nascita della città. Qui, infatti, una cavalla, scalpitando, fece zampillare l’acqua della sorgente. Ci raccontano che fino a qualche anno fa, la sorgente era attiva e l’acqua fluiva naturalmente nei canali, poi le opere di ristrutturazione dell’Unesco pare abbiano rotto il delicato equilibrio e ora, per estrarre l’acqua, è stato necessario installare una pompa. Decorate con le mani di Fatima, per invocare la protezione di Allah, le porte delle abitazioni di Ghadames nascondono veri gioielli architettonici: le case più eleganti si sviluppano su tre piani con suggestivi giochi di scale, divisori intagliati e specchietti per moltiplicare i raggi del sole.

I DESERTI

Usciti dagli stretti e freschi vicoli della vecchia Ghadames, incontriamo gli autisti che ci accompagneranno nei prossimi giorni: El Hadi, Mabruk, Sahat e Mohamed.

Mentre alcuni cercano un ultimo contatto con l’Italia e si dirigono all’ufficio postale, altri svolgono le ultime incombenze prima della partenza: acquisto di frutta e verdura fresche e delle taniche dove trasferire le oltre 300 bottiglie di acqua che, altrimenti, con il caldo e gli scossoni, si romperebbero presto; cernita e tentativo di razionalizzazione dei viveri per renderne facile l’accesso al momento del bisogno; caricamento di bagagli, scatoloni e taniche sulle tre jeep e sul pick-up.

Hammada el Homra

Dopo un rapido pranzo finalmente si parte. Pochi chilometri e la piatta distesa dell’Hammada el Homra ci inghiotte per un viaggio di quasi quattro ore durante il quale ci fermiamo per raccogliere la preziosa legna per il fuoco serale e per scatenare un’estemporanea battaglia a colpi di hantal (meloni del deserto).

Un intero universo è racchiuso nella parola deserto. Chi vive in queste zone ne conosce bene le differenze e laddove noi omologhiamo il tutto in un unico vocabolo, le lingue locali distinguono chiaramente tra erg (deserto di dune) o edeyen (grandi distese di dune), ramala (piccoli erg o semplicemente sabbia), hammada (altopiani rocciosi e calvi) reg (immense distese piatte e sassose), sirir (deserto sabbioso coperto di piccoli ciottoli), fesh-fesh (sabbia mobile e cedevole).

A sud di Ghadames si stende un immenso altopiano di pietra rossa, formato da calcare, arenaria e argilla del Cretaceo, che digrada poi dolcemente verso oriente. L’Hammada al Homra si presenta come una sconfinata e lunare landa desolata dove si percorrono centinaia di chilometri prima di avvistare un’isolata acacia o qualche rado arbusto, ma dove non è impossibile incontrare allevatori di pecore, capre e cammelli.

Erg Ubari

L’Hammada al Homra si perde nell’erg Ubari e i cordoni di dune si susseguono uno all’altro passando dal giallo paglierino, all’ocra, al rosso. Con le sue grandi dune a piramide alternate a quelle più piccole e addossate l’una all’altra, l’erg Ubari è un deserto nel quale è rischioso avventurarsi senza una guida capace perché la sabbia è spesso molle, la discesa dalle creste insidiosa, il rischio di insabbiarsi elevato e i passaggi tra le dune vanno cercati con molta attenzione.

Hammada Zegher

Al centro dell’erg si trova l’Hammada Zegher, un altopiano sabbioso percorso dalle numerose piste di prospezione interrotto da cordoni di dune basse che si estende per circa 80 chilometri.

Sono ormai le 18 quando arriviamo allo wadi Tifaskin. Tendine in fila, perfettamente equidistanti (come poi non si vedranno più), bagagli ordinatamente deposti fuori dalle tende: a ridosso di una montagnola rocciosa, il primo campo è montato.

AMICI ARABI

Ha inizio il nostro primo vero giorno di deserto, quello di ieri non è stato che un piccolo antipasto.

La giornata incomincia con la sequenza che si ripeterà per tutti i giorni a seguire: sveglia alle 6.30, colazione, smontaggio campo (cercando di cancellare il più possibile le tracce della nostra sosta), caricamento bagagli e partenza verso le 8.30. Il viaggio prosegue spedito lungo il confine algerino, al di là del quale si intravede il fumo dei pozzi petroliferi.

L’incontro con alcuni nigerini che conducono una mandria di dromedari è l’occasione per una breve sosta, durante la quale ci viene offerto latte di cammella e Francesca viene indotta a una difficoltosa salita su uno dei dromedari che, però, non gradisce la presenza dell’intrusa europea e la costringe a una rocambolesca e rapida discesa (traduzione: viene scaraventata a terra).

Al Matahar, museo all’aperto

Attraversiamo un vasto territorio cosparso di pietre laviche dalle forme curiose per arrivare in un museo di arte contemporanea all’aperto: questo infatti sembra la piatta distesa di Al Matahar dove grandi pietre scolpite dal vento paiono appena uscite dalle mani di Henry Moore.

Poco dopo, nei pressi di Hassi en Nahia, bellissimi esemplari di tronchi pietrificati del Secondario ci ricordano il tempo in cui nel Sahara prosperavano lussureggianti foreste.

Verso mezzogiorno si materializza un gruppo di acacie, all’ombra delle quali consumiamo un rapido spuntino per poi distenderci in un meritato riposo.

Non finiranno mai di stupirmi, fino all’ultimo giorno, le improvvise e tempestive apparizioni di questi isolati e provvidenziali alberelli in mezzo a lande desolate proprio all’ora di pranzo.

Ma la giornata ci riserva ancora una piccola sorpresa

La jeep di Mohamed si è già fermata un paio di volte, a turno El Hadi e Mabruk si stendono sotto l’auto, non sembrano preoccupati, ma ogni volta ne escono scuotendo la testa, scambiandosi qualche frase a noi incomprensibile.

Quando si ferma definitivamente chiediamo spiegazioni, che arrivano con molta semplicità: si è spezzata la balestra.

Qualche attimo di smarrimento (Oddio e adesso? Siamo nel mezzo di una pietraia a centinaia di chilometri da un paese e da un meccanico – anche se poi scopriremo che questo, in realtà, è il vero mestiere di El Hadi – come facciamo?) che però svanisce subito quando guardiamo l’aria tranquilla delle guide. Ci dirigiamo verso un albero, noi pensiamo a una sosta… invece è la nostra officina. Sahat stacca un ramo abbastanza robusto che, ripulito e sistemato a sostegno della balestra, ci porterà felicemente fino alla fine del viaggio.

Questo piccolo episodio ha trasformato, per quel che mi riguarda, delle simpatiche guide in angeli custodi. In quell’occasione, come in numerose altre che si sono susseguite, mi sono sentita completamente al sicuro con loro, certa che sarebbero stati in grado di porre rimedio a qualunque problema.

Le risate degli amici arabi

El Hadi è il capo e anche se la sera, intorno al fuoco, scherza, ride e canta con gli altri è forte la percezione del suo ascendente. La voce profonda, gli occhi neri e intelligenti, il portamento fiero e consapevole accompagnano gesti attenti e delicati nei confronti di tutti noi.

Mabruk è un gigante in grado di comunicare il senso della vita con le sole 20 parole di italiano e di inglese che conosce.

Mohamed parla solo arabo, ma il suo sorriso illumina anche le giornate più faticose.

Sahat è il giovane del gruppo, taciturno e gentile.

Alì è l’improbabile poliziotto che ci accompagna, evidentemente combattuto tra il ruolo che ritiene di dover ricoprire e il desiderio di unirsi agli altri negli scherzi e nelle risate.

Dirompenti e fragorose quelle di Mabruk, silenziose e morbide quelle di Mohamed, gentili e sommesse quelle di Sahat, ironiche e scherzose quelle di El Hadi, nascoste e timide quelle di Alì: le risate scoppiano improvvise e riempiono il deserto di vita.

Mentre il sole sta per tramontare ci accingiamo a montare il nostro secondo campo in una piccola valle tra le grandi dune dell’erg Ubari. Ma prima un piccolo brivido: durante una ripida discesa la jeep di Mohamed si insabbia e si alzano le urla (tra il divertito e lo spaventato) di Alessandra, Francesca e Simona.

VERSO GHAT

I due giorni che seguono sono un continuo alternarsi di erg e hammada.

Nella tarda mattinata del 24 aprile raggiungiamo il posto di polizia di Tin Eidan che ci accoglie con un refrigerante pozzo d’acqua. La solita acacia ci attende nello wadi Tarout per la sosta di mezzogiorno, da dove riprendiamo il viaggio lungo il letto dello wadi Harir. La pista si inerpica sull’Hammada Zegher per giungere alla strettoia di Diwane che si apre sulle maestose dune dell’erg Diwane.

Erg Diwane

La mattina del giorno successivo l’aria è tersa e frizzante, ma il sole è cocente quando, verso mezzogiorno, il gruppo decide di fare trekking fra le dune. Francesca, Simona ed io, dopo aver camminato per qualche metro sulla sabbia rovente, decidiamo di attenderli all’ombra di una magica pergola di paglia.

Li scrutiamo con un indiscreto cannocchiale, mentre condividiamo il pranzo con gli amici arabi. Al ritorno i nostri compagni sono stanchi, ma entusiasti, noi siamo entusiaste, ma riposate. Ognuno ha avuto ciò che desiderava e possiamo riprendere la strada verso Ghat lungo lo wadi Tanizzouft.

Percorriamo gli ultimi chilometri sulla strada asfaltata che collega Al Awaynat a Ghat circondati dal paesaggio fatato e misterioso del monte Idinen con guglie, pinnacoli e pareti a picco che sprofondano nel deserto: è la montagna degli spiriti cesellata dal vento.

Ghat, città di frontiera

Ghat è una città di frontiera, da qui si transita per dirigersi verso l’Acacus, con la piccola e suggestiva medina, le case diroccate, ancora abitate, addossata alle rocce del monte Kukemen sul quale sorge un grande forte costruito dagli occupanti italiani. Passata recentemente sotto il patrocinio dell’Unesco, a Ghat dovrebbero iniziare presto i lavori di restauro.

Questa sera niente campo tra le dune, ci sistemiamo nei bungalow del campeggio Anay dove improvvisiamo la danza degli shesh: al mercatino di Ghat abbiamo comprato 4 metri di stoffa ciascuno e, dopo averli lavati, li asciughiamo al vento, correndo e incrociandoci in un ballo multicolore. La serata si conclude in un ristorante di Ghat.

L’ACACUS ALL’ORIZZONTE

L’indomani, dopo avere acquistato la carne di cammello per il pasto serale, lasciamo Ghat e proseguiamo verso sud percorrendo la strada asfaltata che si perde presto nella pista che costeggia il confine algerino.

Rottami di mezzi militari, posti di controllo della polizia e dell’esercito a Tin Beibe, quindi sosta all’ombra di un gruppo di acacie e tamerici. Si prosegue seguendo il corso dello wadi Elenjen e, tagliato lo wadi Ayadhar, si risale sull’altopiano da dove le grandi dune si alternano agli scenari delle montagne che tagliano l’orizzonte.

Passo Takharkhori e duna del non ritorno

L’Acacus è lì, davanti a noi, ben visibile, ma apparentemente irraggiungibile; passano ore interminabili dove la tanto attesa montagna sembra non arrivare mai… fino al passo Takharkhori e al brivido della duna del non ritorno affacciata sul vasto wadi Afaar.
Ammiriamo i primi disegni rupestri a Uan Bubbu per rimanere poi incantati davanti al gigantesco arco di Fozzigiaren.

Visite tra vicini

Due isolate e gigantesche figure in pietra sono le misteriose sentinelle del quarto campo, allestito su una duna dalla quale si domina il wadi sottostante. Una figura filiforme si avvicina da un nulla rischiarato dalla luna piena: è Jusuf, la guida di un gruppo di turisti svizzeri, accampatisi poco lontano, venuta a farci visita.

Nella solitaria passeggiata a piedi nudi nella sabbia fredda, mentre le chiacchiere tra l’ospite e gli amici arabi si perdono in una melodiosa litania, la mente si svuota facendomi intensamente godere questi momenti di assoluta solitudine.

Indietro di 8000 anni

Il giorno successivo penetriamo nel mondo del misterioso popolo che ha trasformato l’Acacus in un enorme museo rupestre più di 8000 anni fa.

Nel fitto dedalo di wadi che segmentano il massiccio montuoso ogni grotta nasconde preziosi dipinti: in un angusto riparo del wadi Tanshal scene di caccia con gazzelle e mufloni; pitture della fase delle Teste Rotonde nello wadi Anshal; dopo lo slargo del wadi Imha dove incontriamo una solitaria famiglia tuareg, il sito di uan Amenal propone altre figure di uomini a caccia. Improvvisamente non siamo più nell’Acacus, ma sulla luna: funghi di roccia e pinnacoli erosi dal vento si stagliano in mezzo alla vasta distesa di sabbia di In Hannia.

Scendendo lungo una pista tra ciottoli e pietre grigie raggiungiamo lo wadi Teshuinat, il luogo di massima concentrazione di pitture rupestri, e arriviamo ai giganteschi pilastri di Tin Ghalega dove, in una piccola grotta, è raffigurato un solitario rinoceronte. Consumato il pranzo, seguito da una salutare pennichella, all’ombra di una parete rocciosa proseguiamo verso uan Muhuggiag, dove è raffigurato un corteo di una trentina di figure femminili e venne rinvenuta la mummia di un bimbo nero di due anni, e lo uan Amil, dove sono rappresentati, oltre alle scende di caccia e di battaglia fra guerrieri, momenti di vita quotidiana, con la vestizione e la preparazione di acconciature, recinti con animali, colloqui tra donne e l’adorazione di divinità sconosciute.

Business is business

La visita a quello che una volta era un campo tuareg, e oggi è una delle attrazioni turistiche dell’Acacus, ci riporta sulla terra. Business is business. Nella zeriba di Amrar Hamdani Khali, la storica guida di Fabrizio Mori (l’archeologo italiano che “scoprì” l’Acacus) che, ormai novantenne, vive ad Al Awaynat, ci accoglie il capo campo, perfettamente agghindato con shesh, collane e pendagli. 10 dinari per scattargli le foto.

Dopo questa breve sosta che ci ha ritrasformato nuovamente da viaggiatori in turisti, c’è ancora tempo per visitare lo wadi Tin Lalan con le sue raffigurazioni erotiche e lo wadi Kessi dove sono rappresentate danze propiziatorie.

A ridosso di una parete rocciosa, in un piccolo wadi laterale, installiamo il nostro quinto campo.

L’INCUDINE DEI MESSAK

Lasciato alle spalle questo mondo incantato, la pista prosegue in direzione nord-est per addentrarsi nella vasta distesa piatta del messak Mellet, massiccio bianco, e, attraversato lo wadi Inefarfar, del messak Settafet, massiccio nero.

Si tratta di due altopiani, ciascuno lungo circa 250 chilometri che separano l’erg Ubari dall’erg di Murzuk e sono delimitati dal wadi Irawen a nord e dal wadi Berjuj a sud. Con una larghezza massima di 60 chilometri, il messak Settafet è una piana desolata e aspra cosparsa di ciottoli neri al cui margine settentrionale si erge una barriera compatta e invalicabile alta oltre 200 metri. 

Affrontiamo questo desolante panorama il 28 aprile e per la prima volta l’attesa sosta di mezzogiorno diventa quasi un miraggio. Nella lunga traversata dei messak, l’unica acacia nel raggio di chilometri è già occupata da un altro gruppo di turisti e siamo costretti a percorrere ancora un lungo tratto di pista prima di trovare un luogo dove fermarci. Alle 17 si torna sulle jeep per raggiungere, mentre le ombre della sera inghiottono la distesa di pietra, l’erg Murzuq dove allestiamo il sesto campo, pregustando le meraviglie che ci attendono l’indomani.

Wadi Mathendush, una sorpresa

Anche l’ambiente più inospitale nasconde nel Sahara tesori inimmaginabili. L’incubo del messak Settafet è ancora davanti a noi, ma, ci assicurano, non più di 20 minuti ci separano dal Wadi Mathendush, che custodisce spettacolari incis

Ci sembra impossibile che questa piatta e calda incudine possa finire, finché non ci fermiamo a pochi metri dalla profonda fenditura. Scendiamo lungo il greto del torrente in secca dove, ancora una volta, gli antichi artisti ci stupiscono con una fuga di giraffe scolpita nella roccia di incredibile realismo.

Si può seguire un percorso di circa 12 chilometri che da In Habater, dove si può ammirare una realistica fuga di giraffe, arriva al Mathendush vero e proprio dove si trovano le incisioni dei gatti mammoni e di un coccodrillo (o un varano) con il suo piccolo.

Ma il sole è alto in cielo, il caldo soffocante e io e Francesca preferiamo proseguire in jeep mentre gli altri percorrono a piedi i 12 chilometri dello wadi. Dopo avere condiviso il pasto con El Hadi, Mabruk, Moahmed e Sahat, trascorro il pomeriggio distesa all’ombra, leggendo, sonnecchiando e scambiando oziose chiacchiere con Francesca, i nostri amici arabi e le altre guide in visita.

Raggiunti dai nostri compagni, torniamo sulle dune dell’erg Murzuq per approntare il settimo campo.

LA CAPITALE DEI GARAMANTI

La pista di Berjuj, incisa artificialmente nella roccia del messak, raggiunge l’omonimo centro agricolo dove si producono grano e ortaggi sfruttando le acque sotterranee di un wadi.

Le rovine di Gerama

90 chilometri separano il centro agricolo da Germa, piccola cittadina nel cuore del nulla dalla quale si giunge alle rovine di Gerama, la capitale degli antichi garamanti, leggendario e misterioso popolo del Sahara libico.

Proseguendo verso il villaggio di Tekerkiba si giunge all’accogliente campeggio Africa Tour, collocato tra i giardini coltivati dello wadi al-Hayat e la pista della ramla dei dawada, laghi salati circondati da palme e abitati, fino al 1987, dai dawada, mangiatori di vermi. Piccola etnia dalla pelle scura e dalla bassa statura, discendente probabilmente da una popolazione indigena del Fezzan che abbandonò Garama nei secoli della decadenza. Il nome dispregiativo attribuitogli dagli arabi deriva dal fatto che i dawada si nutrivano di datteri e di piccole larve, in realtà non vermi ma piccoli crostacei, che si riproducevano in alcuni di questi laghi.

La stanchezza accumulata e la diversa opinione sul programma per le prossime ore provocano una spiacevole tensione nel gruppo che si protrarrà per buona parte della serata e che solo la mediatrice allegria di Mabruk riuscirà ad allentare.

Un bagno nel deserto

Il giorno successivo, dopo un bagno nelle acque salate del lago Gabraoun, prosegue il giro dei laghi e, in serata, si giunge alla periferia di Fejij dove installiamo un campo che non è altro che un lontano surrogato dei precedenti tra le dune. Francesca, Claudio ed io ceniamo con gli amici arabi che, l’indomani, saluteremo definitivamente; il resto del gruppo dà l’assalto alle ultime confezioni di tortellini liofilizzati in una grande scorpacciata emiliano-libica.

SULLA STRADA DEL RITORNO

Qualche giorno prima Mauro aveva chiesto dove poter acquistare una ghirba, la pelle di capra nella quale mantenere fresca l’acqua, senza però riuscire a trovarla. Mabruk se ne ricorda e decide di regalargli quella che sta appesa a una delle jeep.

E così, una delle ultime immagini che ho dei nostri amici è il lungo lavoro per ripulire questo strano oggetto che mi farà scoppiare in una risata quando, un paio di mesi dopo, lo ritroverò appeso sulla vasca da bagno dell’appartamento romano di Mauro. 900 chilometri di strada asfaltata ci separano dalla costa.

Il cielo è plumbeo e il temuto ghibli ci insegue per tutto il lungo viaggio. Pochi i ricordi di questa faticosa traversata: la fine ormai vicina di un viaggio emozionante, la stanchezza e la malinconia seguita all’addio agli amici arabi mi estraniano dal resto della compagnia.

Ripenso alle giornate trascorse e al variegato gruppo di uomini e donne con il quale ho vissuto per quindici giorni. Sono ormai le 11 di sera quando arriviamo all’albergo di Al-Khums, nei pressi del sito archeologico di Leptis Magna che visiteremo il girono successivo.

Leptis Magna, maestosa

Dal grande e sontuoso Arco dei Severi si giunge alle Terme di Adriano, vasto complesso dove si distinguono chiaramente Frigidarium, Tepidarium e Calidarium.

La via Colonnata conduce all’area del porto dopo che ci si è lasciati sulla sinistra il Nuovo Foro Severiano che comprende la piazza porticata, decorata da grandi medaglioni con teste di gorgone, e la Basilica, con i quattro pilastri riccamente scolpiti. Dalla Porta Bizantina si accede all’area del Foro Vecchio da dove si arriva ai principali monumenti dell’età augustea: il Mercato, il Chalcidium e il grandioso Teatro. Fuori dalla città l’Anfiteatro e il Circo.

Lungo la strada che da Leptis porta a Tripoli visitiamo, non senza una certa difficoltà di carattere burocratico, la villa romana di Silin con i suoi straordinari mosaici.

ARRIVEDERCI LIBIA

Siamo tornati al punto di partenza.

Trascorsa la notte nell’albergo che ci aveva ospitato al nostro arrivo, l’indomani ci perdiamo nuovamente nei vicoli della medina di Tripoli per imbarcarci, nel primo pomeriggio, alla volta dell’Italia. Dall’alto vedo allontanarsi questo paese magico e decido che tornerò presto.

 

 

Follow by Email
Twitter
Visit Us
YouTube
YouTube
LinkedIn
Share

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *