26 Aprile 2024
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Guardati con sufficienza e superiorità da genitori e fratelli e sorelle maggiori, i giovani nati dopo il 1993, la cosiddetta Generazione Oslo, chiamata anche Generazione hip hop per l’apparente disinteresse verso la politica e la musica come unica passione (insieme a quella per smartphone e social network), è invece la protagonista della protesta che sta nuovamente incendiando Israele e Palestina. E la possibilità di riavviare il processo di pace tra israeliani e palestinesi si allontana a distanze siderali. Nel frattempo, l’oltranzismo religioso ebraico, oltre a sfociare in veri e propri attacchi terroristici, cerca di tenere in ostaggio la società israeliana.
Milano, 26 ottobre 2015

L’odio, la paura, la disperazione, la sete di vendetta ribollono sotto Israele e quello stato-limbo che è la Palestina e il magma sta inesorabilmente raggiungendo la superficie per perdersi nei mille rivoli di un quotidiano stillicidio.
Si legge, in questi giorni, di inizio di una terza Intifada come se quello che sta accadendo fosse un déjà-vu che ciclicamente ricompare (ma che è poi destinato a tornare nell’oblio) e che, in fondo, non porterà a grandi cambiamenti, ma gli avvenimenti degli ultimi anni (e non solo di queste ultime settimane) stanno profondamente incidendo nell’animo e nelle coscienze della popolazione, solidificando barriere che la storia di questi ultimi 30 anni ha eretto e alimentando un odio reciproco che è sempre più prossimo al punto di non ritorno.

L’INTIFADA DELLE PIETRE: CONTRO L’OCCUPANTE

Scoppiata spontaneamente a causa dello scoramento, della frustrazione e della reazione alla politica di occupazione di Israele, dove all’ampliarsi degli insediamenti dei coloni  si accompagnano piccoli e grandi soprusi quotidiani (scarico di acque nere dagli insediamenti sulle terre coltivate dei villaggi palestinesi, taglio di ulivi ed espropriazione di terre per motivi di “sicurezza” ecc.), la prima Intifada (scoppiata nel 1987) vede protagonisti i ragazzi nati sotto l’occupazione di Cisgiordania e Gaza da parte di Israele. Obiettivo della protesta è l’occupante: è contro i soldati dell’IDF (Israel Defense Forces) che i giovani lanciano pietre e molotov e sono i soldati che reprimono duramente la rivolta.
Le immagini dei militari che spezzando le gambe e le braccia di manifestanti adolescenti fanno il giro del mondo suscitando l’indignazione della comunità internazionale e, fatto di gran lunga più importante, della stessa società israeliana dove si va ampliando un vasto movimento d’opinione che si avvicina alle posizioni dei movimenti pacifisti israeliani in attività da anni e che reclama la fine delle ostilità con i palestinesi. La società israeliana, composita, pur con tutte le sue contraddizioni connesse alla particolare relazione stato-religione, sembra esprimere un unico desiderio: diventare un paese “normale”; in questa normalità rientra un diverso rapporto con i vicini più prossimi, i palestinesi appunto.
Ed è proprio sotto la spinta di queste due grandi forze, la rivolta palestinese da un lato e la società civile pacifista israeliana dall’altro, che si potrà arrivare ai primi incontri tra dirigenti palestinesi dell’OLP ed esponenti del governo israeliano, il cui epilogo saranno i cosiddetti Accordi di Oslo siglati da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, alla presenza di Bill Clinton, nel 1993.

L’INTIFADA AL AQSA: CONTRO ISRAELE

Di ben altra natura la seconda Intifada, il cui elemento scatenante viene attribuito alla famosa “passeggiata” di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee nel settembre 2000, ma che in realtà fonda le sue radici nel fallimento di quegli Accordi firmati con tanto clamore sul prato della Casa Bianca sette anni prima.
Dopo gli Accordi di Oslo, accolti con speranza e fiducia, che dovevano portare alla costruzione di uno stato palestinese unendo sviluppo economico e autonomia politica, la popolazione palestinese di Cisgiordania e Gaza si trova in realtà a dover fronteggiare la crescita degli insediamenti israeliani (trovandosi spesso a subire l’aggressività dei coloni, a partire, nel febbraio 1994, dall’attacco dell’ebreo ortodosso Baruch Gloldstein nella moschea di Hebron che provoca 30 morti) e una crisi economica senza precedenti, guidata da una rappresentanza politica verso la quale matura un sentimento di grande sfiducia.
Ma non è solo la popolazione palestinese ad essere colpita. La società israeliana, che vedeva nella pace con i palestinesi anche una garanzia per la propria sicurezza, si trova ad essere attaccata al proprio interno: inizia un periodo di terrore, gli obiettivi sono autobus, discoteche, bar, luoghi di ritrovo; dal 1994 alla vigilia della seconda Intifada, 161 israeliani perdono la vita, entro i confini israeliani, in attentati suicidi rivendicati da Jihad Islamica e Hamas, le due neonate organizzazioni islamiche che si oppongono a una soluzione pacifica del conflitto.
È quindi in questa situazione che la contestazione a quella che viene considerata una provocazione da parte di Sharon accende la miccia di una bomba che in realtà era già pronta ad esplodere; la protesta, a differenza della rivolta del 1987, viene fin da subito coordinata dalle forze di sicurezza palestinesi che si alleano, per l’occasione, con le Brigate Ezzedim al Qassam (il braccio armato di Hamas).
Una nuova ondata di attacchi suicidi di particolare efferatezza (un esempio per tutti, quello alla discoteca Dolphinarium di Tel Aviv nel quale muoiono 21 ragazzi tra i 14 e i 18 anni) torna a sconvolgere Israele; il governo reagisce duramente e rioccupa le principali città della Cisgiordania che in seguito agli Accordi del 1993 erano passate sotto l’Autorità Palestinese. Tra il 28 settembre 2000 e la fine del 2004 si conteranno 3.202 morti tra i palestinesi e 945 tra gli israeliani, ma soprattutto le due società sono sempre più asserragliate su fronti opposti: si spengono le voci pacifiste all’interno di Israele, si ritirano dalla scena politica molte di quelle palestinesi più impegnate nel dialogo.

LA GENERAZIONE HIP HOP SI RIVOLTA

È l’autunno 2014 quando, per la prima volta, si sente parlare di “Intifada dei lupi solitari”:  un giovane palestinese si lancia con la propria auto contro un gruppo di ebrei in attesa dell’autobus, provocando la morte di una bambina di 3 mesi; un altro investe alcuni passanti a Gerusalemme Est causando la morte di un uomo; dopo pochi giorni viene ucciso a pugnalate un giovane israeliano di 25 anni e la stessa sorte tocca a un soldato a Tel Aviv, entrambi sempre per mano palestinese; il 18 novembre, il fatto più grave, due giovani armati di asce, coltelli e una pistola attaccano la sinagoga Kehilat Bnei Torah di Har Nof uccidendo 7 persone.
Ma chi sono i responsabili di questi attacchi? Sono perlopiù giovani nati dopo il 1993, tant’è che vengono chiamati Generazione Oslo, una definizione che fino allo scorso anno si accompagnava spesso a quella di Generazione hip hop per identificare ragazzi e ragazze sempre più lontani dalla politica: ragazze interessate più ai jeans attillati e alle unghie laccate che alle fotografie dei “martiri” affisse sui muri cisgiordani; giovani che cercano una parvenza di normalità sui social network; ma soprattutto giovani che impazziscono per rapper e gruppi hip hop, dove la ribellione è sublimata nella musica come per i loro coetanei neri e latinos in Occidente.
Ma questa generazione, guardata con sufficienza e superiorità da genitori e fratelli e sorelle maggiori è anche quella che ha visto una guerra fratricida tra Hamas e al Fatah che ha portato il simulacro di stato palestinese ad essere diviso in due tronconi sempre più separati tra loro; sono ragazzi che dalla loro adolescenza hanno assistito quantomeno a 3 “operazioni” militari contro Gaza, Piombo Fuso (2009), Colonna di Nuvola (2012) e Margine di protezione (2014) che hanno provocato la morte di circa 3.700 palestinesi (di cui oltre il 70% civili); sono giovani che hanno visto crescere il numero di alloggi destinati a coloni ebrei in Cisgiordania nonostante le reiterate richieste di moratoria da parte della comunità internazionale; sono adolescenti che se abitano a Gaza subiscono il progressivo processo di islamizzazione della società che il governo di Hamas nella Striscia sta imponendo e se vivono in Cisgiordania vedono aprirsi in modo drammatico la forbice tra l’establishment dell’Autorità Palestinese, ricco e corrotto, e una popolazione sempre più impoverita e chiusa nei recinti ritagliati dal Muro costruito da Sharon.

L’INTIFADA DEI LUPI SOLITARI

E così, dopo una nuova vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu e, come vedremo tra poco, un peso sempre maggiore nella società israeliane dell’ortodossia più retriva arriviamo ai giorni nostri in cui gli episodi isolati si moltiplicano (e ogni statistica diventa subito obsoleta) e l’età delle vittime e degli attentatori è sempre più bassa.
Se la Spianata delle Moschee a Gerusalemme rimane il fulcro di scontri tra gruppi palestinesi più o meno organizzati e la polizia israeliana, i veri protagonisti di questa nuova ondata di attacchi si muovono nelle strade e colpiscono a caso, i loro non sono obiettivi militari: prendono a sassate auto fino a provocare incidenti mortali; giovani e adolescenti accoltellano altri giovani e adolescenti; studenti universitari impugnano il coltello per colpire altri studenti universitari. L’Israele occupante è identificato in ogni ebreo che incontrano. Sul fronte ebraico continuano gli attacchi dei coloni nei confronti dei palestinesi, specialmente nell’area di Hebron, e l’IDF è accusato di rispondere alle violenze dei palestinesi con reazioni spropositate, come denunciano Amnesty International e UNRWA.
Il tutto ampiamente ripreso e condiviso sui social network, dove il linguaggio violento nel condividere questo o quell’altro assassinio raggiunge livelli abominevoli, alimentando un vortice di odio che sta trascinando i due popoli nel buco nero di un futuro senza vie d’uscita.
Durissima, Amira Hass, giornalista israeliana del quotidiano Haartez ed editorialista di Internazionale, in un articolo dello scorso 7 ottobre scrive: “La guerra non è cominciata lo scorso giovedì, non è iniziata con le vittime ebree e non finirà quando nessun ebreo verrà assassinato. I palestinesi stanno lottando per la loro sopravvivenza, nel vero significato della parola. Noi israeliani ebrei stiamo lottando per i nostri privilegi in quanto nazione di padroni, nel senso peggiore del termine. Il fatto che ci si accorga che c’è una guerra solamente quando gli ebrei sono assassinati non cancella la realtà che i palestinesi vengono continuamente uccisi e che di continuo facciamo qualunque cosa in nostro potere per rendere loro la vita insostenibile… I giovani palestinesi non assassinano ebrei in quanto ebrei, ma perché noi siamo i loro occupanti, i loro torturatori, siamo quelli che li imprigionano, i ladri della loro terra e della loro acqua, siamo quelli che li mandano in esilio, i demolitori delle loro case, quelli che negano loro un futuro”.

LA SOCIETÀ ISRAELIANA, TRA ANNICHILIMENTO E OSTILITÀ

È il 31 luglio, il lancio di bombe Molotov all’interno di un’abitazione nel villaggio palestinese di Douma provoca la morte di Ali Dawabsheh, un bimbo palestinese di pochi mesi, arso vivo nell’incendio della sua casa (seguito dopo qualche giorno dai genitori che non sopravvivono alle ustioni); durante il Gay Pride di Gerusalemme, Shira Banki di 16 anni viene pugnalata a morte mentre partecipa alla manifestazione; in giugno la Chiesa “Dei Pani e dei Pesci” sulle rive del Lago di Tiberiade, uno dei luoghi più amati del culto cristiano, viene data alle fiamme.
Tre avvenimenti molto diversi tra loro che hanno però un unico comune denominatore: il terrorismo ebraico degli ortodossi più estremisti che non solo ritengono che Samaria e Giudea (chiamando la Cisgiordania con i classici nomi biblici) facciano legittimamente parte di Israele, ma che pretendono che l’intera società israeliana sottostia all’Halakhah, la legge ebraica rituale, nella sua interpretazione più restrittiva. Non mancano le voci che si alzano contro chi compie questi crimini: “Con quella gente  non sono possibili compromessi. Israele deve combatterli esattamente come combatte il terrorismo palestinese: sono non meno pericolosi e non meno determinati”,  ha scritto David Grossman, riferendosi ai terroristi ebrei, in un lungo articolo su Haaretz all’indomani dell’assassinio del piccolo Ali Dawabsheh, ma nel complesso la società israeliana sembra annichilita. Del resto questi fanatici estremisti trovano un humus favorevole nell’attuale compagine di governo: “Il sionismo messianico-religioso egemonizza il nuovo governo Netanyahu”, è il titolo di un articolo di Gad Lerner all’indomani della presentazione del IV governo del segretario del Likud, lo scorso 15 maggio.
Il 17 ottobre e il 24 ottobre si sono svolte a Gerusalemme e a Tel Aviv due manifestazioni che hanno radunato circa 1.500, la prima, e 3.000, la seconda,  arabi ed ebrei israeliani da tutto il paese per affermare che “solo insieme possiamo rompere il sanguinoso ciclo di violenze e occupazione”, ma sono ben lontani i tempi del movimento Peace Now che portava in piazza migliaia di persone contro l’occupazione. Oggi è sempre più palpabile l’ostilità verso il nemico di sempre, diventato amico per un brevissimo periodo (chi ricorda più i fiori offerti ai soldati ai chekpoint dopo la firma degli Accordi?), perché, ed è ancora Amira Hass che scrive: “La nostra capacità di comprensione è schiava di un linguaggio preventivamente censurato che distorce la realtà. Nel nostro linguaggio gli ebrei sono assassinati perché sono ebrei e i palestinesi trovano la loro morte e sofferenza perché presumibilmente se la sono cercata. L’obiettivo di questa guerra unilaterale è di costringere i palestinesi a rinunciare a tutte le loro aspirazioni nazionali riguardo alla loro terra natia. Netanyahu vuole l’escalation perché finora l’esperienza ha dimostrato che i periodi di calma dopo quelli sanguinosi non ci riportano al punto di partenza, ma piuttosto a un livello più basso nel sistema politico palestinese e aggiungono privilegi agli ebrei in una Israele più grande. I privilegi sono il fattore principale che stravolgono la nostra comprensione della nostra realtà, che ci rendono ciechi. A causa loro non riusciamo a capire che persino con una debole leadership ‘presente- assente’, il popolo palestinese – disperso nelle sue riserve indiane – non si darà per vinto e continuerà a trovare la forza necessaria per resistere al nostro malvagio dominio”.
E la possibilità di un dialogo si allontana a distanze siderali.

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