28 Aprile 2024
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di Colum McCann

L’apeirogon è un poligono con un numero infinito di lati. È la metafora che Colum McCann utilizza per raccontare una storia di dolore, di amore, di pace, di violenza. Una storia di conflitti: quello pubblico, profondo e devastante, che contrappone israeliani e palestinesi e quello intimo, interiore, di due padri che quotidianamente fronteggiano il dolore, altrettanto devastante, con la ricerca del dialogo.

In Apeirogon, lo scrittore irlandese, naturalizzato americano, racconta, e reinterpreta, la storia vera di Rami Elhanan, israeliano, e Bassam Aramin, palestinese: la figlia del primo, Smadar 13 anni, viene uccisa da un attacco terroristico nel 1997, con le amiche sta andando ad acquistare libri per la scuola mentre ascolta il suo walkman; la figlia del secondo, Abir 10 anni, viene uccisa 10 anni dopo da un soldato israeliano con una pallottola di gomma alla testa, ha appena comprato un braccialetto di caramelle e indossa l’uniforme della scuola.

Rami Elhanan è figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, è stato carrista nella Guerra di Kippur, è un grafico e pubblicitario di successo; i suoi poster campeggiano nelle strade di Israele. La moglie Nurit è una filologa, insegna all’Università ebraica di Gerusalemme, è un’attivista; suo padre è il generale Matti Peled, uno dei simboli del movimento israeliano per la pace.

Bassam Aramim finisce invece in carcere a 17 anni per aver lanciato una granata contro una jeep dell’esercito israeliano. Vive tutta la serie di umiliazioni e violenze ben note ai palestinesi che non fanno che radicalizzare il suo odio, ma poi si avvicina al tema della Shoah e la pietà si insinua nei suoi pensieri. Questo lo porta a cercare un percorso che rintuzzi l’odio in un angolo per lasciare il posto al desiderio di pace.

I due si trovano e con l’associazione Parents Circle Family Forum (che riunisce i genitori, ma non solo, di vittime delle due parti del conflitto) girano il mondo per usare “la potenza del loro dolore come arma” e iniziano i loro interventi sempre con le stesse parole: “Sono Rami Elhanan, il padre di Smadar”.“Sono Bassam Aramim, il padre di Abir”.

Non è un libro facile ed è un libro che o si ama o si odia. Impossibile rimanere indifferenti. La scrittrice palestinese Susan Abulhawa lo ha stroncato definendolo un “passo falso colonialista” perché, dal suo punto di vista, equipara sostanzialmente le due parti. Nonostante io ami molto questa scrittrice, tra gli altri è l’autrice di Ogni mattina a Jenin, non concordo con la sua analisi perché il focus centrale del libro non porta a concludere con un giudizio sul conflitto, con un “beh sono pari” oppure “è talmente complicato che non si risolverà mai”. Mi ritrovo invece nel commendo di Paola Caridi, una che la questione la conosce benissimo e autrice di libri illuminanti come Hamas, che, dopo avere inizialmente snobbato il libro con un certo fastidio, lo legge poi, forzando il proprio pregiudizio, per arrivare a concludere “Apeirogon l’ho già finito. Già mi manca.”.

Io sostengo da ormai molti anni che uno dei principali errori è quello di considerare questo conflitto unico, specifico, eccezionale. Da questo presunto carattere di eccezionalità deriva una estrema difficoltà a identificare possibili vie d’uscita. Questa presunzione porta inevitabilmente a non prendere in considerazione altri paradigmi della Storia, a non cercare nella Storia percorsi, modelli, esempi che possono rappresentare un punto di partenza per intraprendere un positivo cammino verso la pace. Se il conflitto israelo-palestinese è unico ed eccezionale, a qualsiasi soluzione proposta è estremamente facile opporre dei “però” che calano come macigni a interrompere qualsiasi percorso di dialogo e incontro.

E invece questo libro un percorso lo indica, un percorso difficilissimo e che ormai ha assunto le dimensioni di un budello dove ci si muove a malapena, ma non mi sembra ci siano molte altre vie d’uscita.

Feltrinelli, 2021, 528 pp.

 

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